Quattro giorni e sarà tutto più chiaro. Cinque giorni di riflessioni, ad ascoltare la testa e il cuore, cinque giorni per farsi consigliare. Perché Roberto Mancini nel suo staff non ha solo collaboratori, ha soprattutto amici. La sconfitta contro la Macedonia e la conseguente eliminazione dalla corsa per il Mondiale è “la più grande delusione della sua carriera”, andare avanti sarà dura. L’idea di dimettersi, in queste ore, è quella che trova più spazio nei pensieri del commissario tecnico azzurro, che era convinto di volare in Qatar per provare a vincere la Coppa. E invece sarà costretto a guardare la rassegna iridata sul divano, davanti alla tv.
Martedì c’è da giocare l’inutile partita contro la Turchia, al termine della quale arriverà la decisone. A oggi è molto più fuori che dentro, nonostante il lavoro ai fianchi del presidente federale Gravina. E per l’Italia non può essere un bene. Perdere Mancini vorrebbe dire riiniziare, ripartire. Con un progetto nuovo, con idee nuove, rischiando di perdere del tempo. Mancini non è solo l’allenatore che ha riportato l’Italia sul tetto d’Europa per la prima volta dal 1968, è anche l’uomo che ha saputo dare alla Nazionale un’identità precisa, che ha ottenuto i risultati attraverso un gioco propositivo e moderno, in linea con quello delle grandi nazionali. Che ha saputo valorizzare giocatori che si erano persi, assemblando la vecchia guardia con giovani di grandi qualità. Che scriveranno pagine importanti della nostra storia calcistica.
Contro la Macedonia del Nord è finito sul banco degli imputati, per le convocazioni e per i cambi durante la partita, ma non può essere considerato il colpevole della disfatta azzurra. Per un giudizio più corretto e coerente con il momento bisogna considerare tutte le attenuanti, la mezza giornata per preparare la partita (dopo il no della Lega Serie A al rinvio della giornata del 19-20 marzo), il parco calciatori dal quale poter fare le scelte (pesantemente ridotto dagli infortuni) e soprattutto la scarsa condizione psico-fisica di alcuni pilastri dell’ultimo Europeo, Insigne, Jorginho e Barella su tutti. Poteva fare di più, certo, non aver portato l’Italia al Mondiale sarà una macchia indelebile della sua carriera, in campo però vanno giocatori, non lui, il problema è strutturale e la bacchetta magica esiste solo nel mondo incantato. Cambiare il commissario tecnico sarebbe l’ennesimo errore di una macchina che ha bisogno di cambiare il motore, non il pilota.