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Solo il tempo potrà dire se l’esito dei colloqui di Istanbul può evolversi in una trattativa di pace. Nel complesso dossier dei problemi sul tavolo, lo status del Donbass e della Crimea è dirimente, perché i due territori rappresentano acquisizioni – illegittime dal punto di vista del diritto internazionale – alle quale il Cremlino non intende rinunciare.
La questione dello status del Donbass “è la più difficile”, avrebbero ammesso i negoziatori ucraini, rinviandone la soluzione ad un incontro diretto Putin-Zelensky, che però non è in programma. Il Cremlino, pur ammettendo che nell’accordo ci sarebbero “il rifiuto di aderire alla Nato, la neutralità dell’Ucraina e la rinuncia alle armi nucleari e di distruzione di massa”, non accetta “di discutere con nessuno lo stato delle regioni russe, lo preclude la Costituzione russa e la Crimea è parte della Russia”, ha dichiarato Dmitrij Peskov, portavoce di Putin. Affermazione coerente con gli ordini più recenti dello stato maggiore russo: intensificare le operazioni in Donbass.
Ma c’è un altro fatto politicamente significativo occorso nella giornata di ieri ed è l’incontro tra i ministri degli Esteri di Russia e Cina. Sergej Lavrov e Wang Yi hanno detto che “Cina e Russia cercano un ordine mondiale giusto e multipolare”.
Abbiamo fatto il punto con Pasquale De Sena, presidente della Società italiana di diritto internazionale e ordinario nell’Università di Palermo, cominciando dal cessate il fuoco unilaterale comunicato stanotte a fini umanitari. “Viste, ahimè, le dichiarazioni sugli esiti negativi del negoziato in corso, potrebbe non essere affatto un segnale necessariamente positivo, ma costituire piuttosto il preludio di operazioni militari più massicce” dice De Sena al Sussidiario. “Le due questioni territoriali sono gli scogli veri di questo negoziato. Temo che i russi non se ne andranno prima che la trattativa non sancisca dei vantaggi territoriali per Mosca”.
E sotto il profilo del diritto internazionale?
Sono cambiamenti territoriali che non possono essere facilmente riconosciuti in base al diritto internazionale, perché realizzati in violazione di norme internazionali: l’annessione della Crimea, in violazione dell’integrità territoriale ucraina, e ad esito di un referendum considerato non valido dall’Assemblea generale dell’Onu; la complessiva operazione condotta in Donbass, sempre in violazione dell’integrità territoriale ucraina, e pure per mezzo di un attacco armato.
Come se ne esce?
Arrivando ad accordi che sacrifichino qualche principio. Purtroppo al momento non vedo altre prospettive.
C’è poi la questione della neutralità.
Secondo me, con ogni probabilità, i russi chiederanno una modifica della Costituzione ucraina. È ipotizzabile che a ciò corrisponderà pure qualche forma di garanzia internazionale della sicurezza ucraina.
Ricordiamo che nel 2009 l’ingresso nella Nato e nella Ue sono stati inseriti nella Costituzione di Kiev.
Esattamente. Una scelta largamente appoggiata dagli occidentali, che vi hanno visto, peraltro, un’espressione della sovranità ucraina.
Che ne pensa?
Una delle caratteristiche distintive di tutta questa vicenda, guardata col senno di poi, è la costante sottovalutazione, da parte dei governi occidentali, della determinazione dei loro interlocutori. Un simile atteggiamento è molto criticabile, soprattutto in seguito agli eventi del 2014.
In occasione dell’ultimo vertice Nato, seguito dal Consiglio europeo e dal G7, Biden ha detto che “la posta in gioco non è solo la difesa dell’Ucraina ma la democrazia nel mondo”. Un obiettivo ambizioso.
Lo scontro che vede contrapposti Usa, Nato e Ue, da una parte, e Russia, dall’altra, non è soltanto militare ed economico, è anche uno scontro di tipo egemonico. Biden intende difendere un modello di democrazia; tale modello, naturalmente legittimo, è ritenuto non essere l’unico dalle “controparti”. Ne avevamo parlato, mi sembra, no?
Lei aveva parlato di “guerra-rivoluzione” – da parte di Putin – e di “un conflitto tra due visioni dell’assetto giuridico e politico delle relazioni internazionali”. Potrebbe spiegarci meglio il suo punto di vista?
L’obiettivo di Cina e Russia, al di là degli aspetti territoriali della guerra in Ucraina, è quello di cambiare il concetto di sicurezza internazionale. Come? Agendo soprattutto sulla nozione di minaccia alla pace, ex-articolo 39 della Carta Onu. Sulla base di questo concetto, da trent’anni a questa parte, il Consiglio di sicurezza, talvolta con la cooperazione di Cina e Russia, ha interpretato il concetto di “minaccia alla pace” comprendendo in esso anche la violazione dei diritti umani. Due osservazioni.
Prego.
La prima: è desumibile che da ora in poi quella cooperazione di Russia e Cina non ci sarà più, come già è emerso nella prassi recente del Consiglio. La seconda: si può ipotizzare che ciò avverrà sistematicamente, visto che nella dichiarazione congiunta del 4 febbraio scorso Russia e Cina mettono in discussione l’univocità del suddetto concetto. Esse rigettano, tra l’altro, “i tentativi di alcuni Stati di imporre i propri ‘standard democratici’ ad altri Paesi, di monopolizzare il diritto di valutare il livello di conformità ai criteri democratici”. È evidente, insomma, che la concezione di democrazia che hanno Pechino e Mosca è ben diversa dalla nostra; quel che ci interessa, ora, è capire la portata della loro azione politica, per trarne anche le possibili conseguenze giuridiche.
La settimana scorsa Draghi ha detto che il Cremlino ha messo in discussione l’ordine ereditato dalla Carta Onu.
A me non sembra. È un’affermazione un po’ approssimativa. Mosca – ricordiamolo, insieme a Pechino – non mette affatto in discussione né le Nazioni Unite, né il divieto dell’uso della forza; anche se, naturalmente, sta violando quel divieto. Ma perché lo sta violando? Al di là della questione ucraina, lo sta facendo, come ho appena detto, per affermare che la nozione di sicurezza internazionale, così come questa è maturata negli ultimi trent’anni sotto l’egida degli Stati Uniti, deve cambiare.
Quali sono i pilastri di tale concezione messa in discussione da Russia e Cina?
La possibilità di intervenire nell’ambito di teatri che, pur non mettendo direttamente – lo sottolineo – in discussione la pace, ciò nonostante manifestano violazioni gravi dei diritti dell’uomo. È la breccia attraverso la quale passò l’intervento Nato del 1999 nell’ex Jugoslavia. In quell’occasione, peraltro, la contrarietà di Russia e Cina impedì un’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza.
Che ragioni possono addurre, oggi, Putin e Xi?
Possono accampare non solo motivazioni ideologiche, come è ovvio che sia, ma il fatto che molto spesso, purtroppo, questi interventi sono andati ben al di là della tutela dei diritti umani, com’è accaduto, per esempio, proprio nel 1999, col bombardamento di larga parte dell’ex Jugoslavia.
Parla del tentativo – o dei tentativi – di “democracy building”?
Anche. E del tentativo di instaurare una sorta di “governo del mondo” fondato su questi presupposti. Pensiamo ancora all’intervento in Iraq, che avvenne sulla base di motivazioni occasionali, traballanti, come tutti sappiamo, al netto del fatto, si badi bene, che Saddam Hussein fosse senza dubbio un dittatore.
E non era un motivo sufficiente?
Le violazioni dei diritti umani che seguirono all’intervento, non tanto da parte delle forze appartenenti alla coalizione, quanto negli scontri delle fazioni religiose che avvennero nel processo di “State building”, furono enormi. A Pechino e a Mosca non solo hanno contestato la violazione della sovranità irachena, ma possono dire: che ne è dei vostri scopi, se poi l’intervento si traduce in una tragedia?
Dove e da chi è stata codificata la cosiddetta “Responsibility to protect”, il mandato a intervenire quando uno Stato sovrano non garantisce più il rispetto dei diritti dell’uomo?
Per esempio, nel documento finale del World Summit delle Nazioni Unite nel 2005, anche se in quel documento non c’erano riferimenti espliciti all’uso della forza. Peraltro si è ritenuto di poter fondare sulla “Responsibility to protect” l’intervento armato in Libia del 2011. Ma la dottrina non è mai stata codificata in un documento giuridico vincolante, ed è anche molto incerto che corrisponda all’evoluzione del diritto internazionale non scritto.
Alcuni opinionisti hanno rilevato che dovremmo chiederci non come mai sia avvenuto l’allargamento della Nato ad Est, ma perché gli Stati dell’ex patto di Varsavia abbiano chiesto l’adesione alla Nato per garantire la propria sicurezza. Cosa pensa di questa sorta di inversione dell’onere della prova?
È un ragionamento fragile, per una ragione molto semplice: quello che è in gioco, oggi come allora, non è solo la “sicurezza” dell’Ucraina, come della Romania o della Polonia. Limitarsi a questo implica una visione riduttiva, smentita, non da ultimo, proprio dall’affermazione di Biden da lei ha richiamata. Il vero contrasto – come attesta la stessa dichiarazione congiunta di oggi, di Lavrov e Wang Yi – è tra diverse aree geo-politiche, con le rispettive pretese, egemoniche e contro-egemoniche. È evidente che Putin persegue la ricostituzione di uno Stato-potenza, certo discutibilissimo, nel quale né io né lei ci troveremmo volentieri. Ma dall’altra parte c’è l’egemonia statunitense.
È stata questa egemonia a fare da polo di attrazione per l’ingresso nella Nato dei Paesi ex comunisti?
Certamente. Parliamo di popoli che hanno sofferto per cinquant’anni il giogo sovietico, e che perciò hanno ritenuto, insieme ai loro governi, di sentirsi più tutelati, anche economicamente, scegliendo di entrare nella sfera di influenza americana; ma non per questo possiamo cambiare il significato delle cose.
Ha avuto un ruolo la cosiddetta Commissione Venezia, che studia gli ordinamenti di questi Stati, comparandoli agli ordinamenti europei?
Rispetto all’ingresso nella Nato, direi di no. L’ha avuto nell’ambito del Consiglio d’Europa, all’epoca dell’adesione al Consiglio degli Stati dell’Est europeo, ivi compresa la Russia.
Cosa si può dire del Memorandum di Budapest firmato nel 1994 da Usa, Regno Unito, Russia e Ucraina con il quale Kiev accettava la denuclearizzazione e restituiva a Mosca le armi sovietiche, in cambio di garanzie a tutela della propria sovranità? Chi lo ha violato?
È molto dubbio, per la verità, che quelle garanzie avessero un effettivo valore giuridico, e non costituissero il contenuto di un impegno essenzialmente politico, come gli stessi Stati Uniti hanno fatto valere nel 2014. Insomma, la diatriba relativa alla portata di quell’intesa non mi pare particolarmente significativa.
Che ruolo dobbiamo attribuire alla decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia?
La Corte, fondandosi su una interpretazione estensiva della Convenzione sul genocidio, ha dato torto alla Russia e ragione all’Ucraina, riconoscendo fondata, prima facie, la sua asserzione di non aver commesso alcun genocidio nel Donbass, ed ordinando alla Russia di interrompere le operazioni militari in corso. Sul piano dell’effettività, il risultato della decisione, purtroppo, è pari a zero; essa ha avuto semmai un altro senso.
Quale?
Quello di una ri-affermazione dei principi generali della Carta dell’Onu e del diritto internazionale generale. Il vero problema, tuttavia, a mio modo di vedere, non è quello della fondatezza tecnica dell’interpretazione operata dalla Corte, fondatezza che si può peraltro riconoscere.
Intende dire che è innanzitutto politico?
Esatto. Per due ragioni. Se il Consiglio di sicurezza dell’Onu fosse riuscito a pronunciarsi, la Corte sarebbe ugualmente arrivata ad adottare una decisione così ardita dal punto di vista interpretativo, in tempi rapidissimi? Forse no, anche perché probabilmente l’Ucraina non avrebbe percorso questa strada. Ciò vuol dire che la Corte è stata messa, in qualche modo, in condizione di “doversi” pronunciare nel senso indicato, a causa delle particolari e delicatissime circostanze del caso.
E la seconda ragione?
Bisogna chiedersi se questo sia un bene o meno, perché alla fine non solo principi fondamentali del diritto internazionale sono stati violati, ma le stesse decisioni che servono a ristabilirli sono restate inattuate. E lo si sapeva già da prima.
Perché dice questo?
Le rispondo ancora con una questione: a parte ogni altra considerazione – come si usa dire, “inter arma silent leges” –, se è vero quello che abbiamo detto finora, e cioè che questa è una guerra di contestazione dell’ordine giuridico-politico vigente, era ragionevole pensare che la Russia si sarebbe arrestata, proprio dinanzi alla massima espressione giurisdizionale di quell’ordine?
È fiducioso dopo questa quarta tornata di trattative?
È prematuro fare valutazioni. Nel frattempo, quest’ultimo round negoziale è a mio avviso la conferma che Mosca non ha mai avuto intenzione di occupare l’Ucraina nel suo complesso, ma che nondimeno ha bisogno di veder finire questa guerra. Per ragioni interne ed esterne. E ciò sebbene sia difficile, come ho detto in apertura, che l’esercito russo si ritiri, senza ottenere vantaggi territoriali.
Quali sono le ragioni esterne?
Be’, io non credo che la Cina gradisca il protrarsi della situazione in corso, perché essa tende ad accreditarsi come una potenza pacifica, ed innanzitutto commerciale. Tuttavia, la Cina resta saldamente attestata sulla posizione della Russia quanto alla necessità di frenare l’espansione della Nato ad Ovest, e, soprattutto, di scongiurare qualsiasi tentativo di consolidare un’organizzazione politico-militare nel Pacifico.
Intanto c’è l’Aukus, il patto di sicurezza tra Usa, Regno Unito e Australia, che ha fatto tanto discutere per la fornitura di sottomarini a Canberra.
Se l’Aukus prelude ad un’alleanza politico-militare più strutturata, Pechino non starà ferma. Questo è anzi un elemento che getta un cono di luce molto più ampio sulla stessa guerra in Ucraina, che potrebbe costituire un “conflitto-monito” su quello che potrebbe accadere tra le grandi potenze nel Pacifico.
(Federico Ferraù)
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