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Questo articolo è uscito il 12 marzo 2022 a pagina 23 del numero 18 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
Sotto un cielo nuvoloso si apre una vallata. Ci sono un castello, una chiesa di campagna e un ruscelletto. In una radura vediamo un gruppo eterogeneo di signori e di villani; si suonano il liuto e la viola da braccio e un giovane contadino invita una dama a danzare. Alle loro spalle, in lontananza, uno specchio d’acqua. E un paesaggio azzurrino, sempre più impalpabile, che sembra dissolversi all’orizzonte.
È la Danza campestre del pittore bolognese Guido Reni (1575-1642), perno intorno a cui ruota la mostra Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura, allestita nelle sale della galleria Borghese. Il quadro apparteneva originariamente alla collezione del padrone di casa, il cardinale Scipione Borghese, ma fu venduto nell’ottocento e poi andò disperso. Ricomparve nel 2008 sul mercato antiquario inglese come “anonimo bolognese”. Nel 2020 fu attribuito con certezza documentaria a Guido Reni e riacquistato dalla galleria Borghese.
Torna a casa quindi un tassello fondamentale per comprendere non solo l’evoluzione della pittura di Reni, ma anche un capitolo della storia del gusto romano sul finire del cinquecento. Un gusto decisamente internazionale che in quegli anni si stava evolvendo rapidamente.
Guido Reni arriva a Roma intorno al 1600. È già famoso per la sua pittura sacra tanto spettacolare quanto elegante: le sue scene di martirio non hanno nulla di terribile, i santi sono estatici e riccamente abbigliati, e gli aguzzini hanno il decoro attento di artigiani che amano il loro lavoro. Il suo è un classicismo composto con qualche guizzo di galante brillantezza.
Le sue figure mitologiche o bibliche hanno una grazia sempre ai limiti del lezioso, le torsioni drammatiche della pittura manierista in Guido Reni si risolvono in pose graziose come passi di danza. Per esempio David, in posa con la testa tagliata di Golia, ha l’eleganza dinoccolata di un ballerino a riposo e sulla testa porta un cappello scarlatto con una frivola piuma.
Ai curatori delle mostre piace il concetto di “dialogo” tra le opere esposte, e più il dialogo è improbabile e meglio è. Proprio in queste sale era stata ospitata, l’anno scorso, la discussa mostra dei finti reperti archeologici della superstar dell’arte contemporanea britannica Damien Hirst.
Vedere la produzione romana di Guido Reni nelle sale della galleria Borghese, al contrario, non ha nulla di forzato: le sue opere qui respirano nel loro habitat naturale. Vedere Lot e le figlie, un suo quadro romano del 1615 circa, nella sala del Sileno, accanto alle opere di Caravaggio, dà la misura di quanto porosa fosse l’arte di Guido in quegli anni.
Caravaggio (di soli quattro anni più vecchio), con il suo uso tagliente della luce e le sue figure realistiche e carnali potrebbe sembrare l’antitesi di Guido Reni. Eppure, il manto rosso che copre il vecchio Lot e la luce che arriva dall’alto a illuminare i personaggi fanno capire quanto Reni fosse capace di fare sue alcune intuizioni caravaggesche.
La maniera di Guido Reni non è mai statica o protocollare; a Roma si apre a soluzioni nuove e sempre più moderne, come nella Strage degli innocenti del 1611, una grande tela meravigliosamente posizionata nella Sala di Apollo e Dafne, di fronte al capolavoro scultoreo di Bernini.
La mostra alla galleria Borghese riesce a farci vedere l’arte di Guido Reni come un organismo vivo e ce la presenta come un affascinante processo di assimilazione. E l’attenzione al tema del paesaggio ci permette di scoprire come lo studio della natura e della luce siano il tessuto connettivo che tiene insieme la visione di un eccezionale artista di cerniera tra classicismo e barocco. Un artista la cui influenza, soprattutto attraverso la pittura francese, scavalca due secoli e arriva dritta fino a Picasso che, in Guernica, ha voluto riprendere proprio il profilo di una delle donne in fuga della Strage degli innocenti.
Questo articolo è uscito il 12 marzo 2022 a pagina 23 del numero 18 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
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