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La foto mostra una montagna di scatoloni. All’interno ci sono decine di droni, tutti prodotti dall’azienda cinese Dji. L’Ucraina, pochi giorni fa, ha speso 6,8 milioni di dollari per comprarne quasi 2.400. Ad annunciarlo è stato Mykhailo Fedorov, vice primo ministro e ministro per la Trasformazione digitale. Lo stesso che pochi giorni fa aveva inviato una lettera alla stessa Dji per chiederle di “porre fine a qualsiasi legame con la Russia”. Dji non lo ha fatto. Ma i suoi droni sono troppo importanti per la resistenza.
L’azienda cinese si trova oggi in una posizione anomala, in mezzo a una guerra in cui entrambe le parti utilizzano la sua tecnologia. Da un lato continua a fare affari con Mosca. Dall’altro dialoga con l’Ucraina e si mostra disponibile ad accogliere alcune richieste. E dichiara di “non sostenere” l’uso dei suoi prodotti per attacchi contro “la vita, i diritti o gli interessi” delle persone.
Chi è il miliardario che ha creato Dji
Il padre di Dji (acronimo di Da-Jiang Innovations, “grandi innovazioni di frontiera”) è Frank Wang, ingegnere aerospaziale cinese e primo miliardario nella storia dei droni. Wang, che oggi ha un patrimonio di 4,8 miliardi di dollari e possiede il 40% della società, ha fondato Dji nel 2006 e ha iniziato a gestirla dal dormitorio della Hong Kong University of Science & Technology, prima di trasferirsi a Shenzhen. L’idea originaria era di vendere componenti per droni ad aziende e università. Nel 2009, come ha raccontato Forbes Italia, alcune componenti fabbricate da Dji sono state utilizzate per il volo di un drone intorno alla cima dell’Everest.
A partire dal 2010 l’attività si è rivolta soprattutto ai consumatori. Tre anni più tardi l’azienda ha lanciato Phantom, un drone più facile da utilizzare rispetto ai concorrenti. La terza versione, dotata di una videocamera in grado di trasmettere immagini in tempo reale, ha permesso a Wang di conquistare una posizione di dominio sul mercato che conserva tuttora. Nel marzo 2020, secondo Bloomberg, Dji aveva una quota del 77% del mercato americano dei droni per i consumatori. Nessun’altra società andava oltre il 4%.
Cinque anni fa Dji ha vinto anche un Emmy per l’uso della sua tecnologia nelle riprese di serie come Better Call Saul e Game of Thrones.
Il culto della competizione
Forbes scrive che Dji ha un fatturato di oltre due miliardi di dollari e una valutazione di 15 miliardi. Ciò nonostante, Wang resta, come scriveva Bloomberg due anni fa, “forse il più riservato tra tutti gli amministratori delegati di aziende tecnologiche”. Ha fama di perfezionista dal carattere difficile. Sulla porta del suo ufficio ci sono due targhe che recitano: “Ammesse solo persone con il cervello” e “Non far entrare le emozioni”.
Secondo i giornalisti Blake Schmidt e Ashlee Vance, Dji è “famigerata per la sua atmosfera competitiva”, in cui vari gruppi competono su uno stesso progetto. I dipendenti compilano valutazioni sui colleghi e i risultati vengono usati per stabilire gli stipendi. Lo stesso “atteggiamento di ostilità”, secondo Schmidt e Vance, esiste anche nei confronti dei consumatori. Ottenere rimborsi per droni difettosi da Dji è molto difficile: perfino dirigenti di alto livello si impegnano in prima persona per negarli.
La lista nera
A febbraio alcuni senatori repubblicani degli Stati Uniti hanno definito Dji “una società affiliata al Partito comunista cinese”. Due giorni prima, il Washington Post aveva accusato l’azienda di avere “nascosto il sostegno economico del governo cinese”. Secondo il quotidiano, alcuni documenti dimostrano che la società ha ricevuto finanziamenti da “quattro enti posseduti o amministrati da Pechino”. E uno dei quattro avrebbe “un ruolo chiave nella promozione di partnership tra aziende private e l’esercito cinese”.
Già nel 2020 il dipartimento degli Interni statunitense aveva annunciato che avrebbe smesso di usare 800 droni Dji per la conservazione della fauna e il monitoraggio delle infrastrutture. La ragione, come scriveva il New York Times, era “il timore che le componenti cinesi presenti venissero utilizzate per lo spionaggio”. Nel dicembre 2020, poco prima di lasciare la Casa Bianca, Donald Trump aveva incluso Dji nella sua lista nera di compagnie cinesi.
Pochi mesi fa il dipartimento del Tesoro statunitense ha anche vietato a individui e società americani di investire in Dji, accusata di complicità con il governo nel genocidio della minoranza musulmana degli uiguri. Dji, secondo Washington, avrebbe aiutato Pechino “nella sorveglianza biometrica e nel tracciamento” degli uiguri.
I droni più amati dai poliziotti
Ciò nonostante, come scriveva Forbes a marzo 2021, “la polizia [statunitense] adora Dji”. Nel 2018 la società di Frank Wang e Axon, azienda americana che produce telecamere indossabili e taser, hanno annunciato una collaborazione per vendere droni per la sorveglianza ai dipartimenti di polizia.
“Con 80 ore di istruzione”, ha detto a Forbes un tenente della polizia di Sacramento, “prendiamo una persona che non ha mai neanche toccato un drone e possiamo metterle in mano un kit completo. Otteniamo ottimi risultati a un prezzo conveniente”.
Dji e la guerra in Ucraina
Secondo Repubblica, proprio la mancanza di droni potrebbe essere una delle principali carenze nell’arsenale russo in Ucraina. Il giornalista Gianluca Di Feo ha scritto che l’esercito russo ne ha pochi perché “la sua filosofia dà la priorità all’artiglieria”. Mosca prevede, di norma, che le sue colonne di mezzi siano scortate da elicotteri, capaci di individuare e prevenire imboscate nemiche. I missili forniti dall’Occidente all’Ucraina hanno però abbattuto molti elicotteri. Putin potrebbe perciò chiedere droni a Pechino e affidare loro la protezione dei convogli.
Fedorov, il vice primo ministro ucraino, ha scritto su Twitter che i russi “utilizzano prodotti Dji per pilotare i loro missili”. Ha chiesto poi all’azienda di impedire a Mosca l’utilizzo di AeroScope, una tecnologia che rileva droni anche a 50 km di distanza, di fornire al governo ucraino informazioni su tutti i droni presenti nel Paese – per esempio luogo e momento dell’attivazione – e di disattivare i velivoli registrati fuori dall’Ucraina.
Dji ha replicato che “se il governo ucraino richiederà formalmente la creazione di una barriera in tutto il Paese, la creeremo in accordo con le nostre linee guida”. Ha precisato però che la misura “si applicherebbe a tutti i droni Dji in Ucraina, a prescindere da chi li manovra”. Ha negato inoltre di avere manomesso dispositivi utilizzati dalla resistenza, come sostenevano alcune voci, e ha ribadito che nessun suo prodotto, incluso AeroScope, è adatto all’uso militare. Tra le ragioni ha indicato il Remote Id di cui saranno dotati tutti i suoi velivoli: una sorta di targa elettronica che permette alle autorità di conoscerne il proprietario.
Forbes, però, rileva che il Remote Id non è ancora obbligatorio né in Europa, né negli Stati Uniti. E che anche l’esercito americano, negli ultimi due anni, ha firmato contratti per la tecnologia AeroScope per 170mila dollari.
Troppo importanti per rinunciare
Malgrado tutto, la resistenza ucraina ha giudicato i droni Dji troppo preziosi per smettere di utilizzarli. Anche se un portavoce di Aerorozvidka, organizzazione non governativa che sostiene l’esercito di Kiev, ha dichiarato a Forbes che “ogni azienda cinese è sottoposta al governo cinese”.
Intanto le accuse di appoggio a Putin hanno avuto le prime ripercussioni commerciali. MediaMarkt, l’enorme catena di negozi di elettronica presente in Italia come MediaWorld, ha infatti bloccato la vendita dei prodotti Dji.
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