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La Cina, attraverso il suo ministro degli Esteri, ha affermato di “non volere essere colpita” dalle sanzioni occidentali. L’economia di Pechino, però, sta già pagando la guerra in Ucraina. La Borsa di Hong Kong ha perso più del 5% nell’ultima seduta ed è sprofondata ai livelli più bassi degli ultimi sei anni. L’indice Hang Seng Tech, che raccoglie i titoli delle 30 più importanti aziende tecnologiche, ha ceduto il 5% martedì, l’11% lunedì e il 30% dall’inizio dell’anno. E tre dei cinesi più ricchi, da soli, hanno visto bruciare più di 15 miliardi di dollari in un giorno.
Ma Huateng, cofondatore del colosso tecnologico Tencent, ha perso più di tutti: 6,1 miliardi di dollari. Secondo la classifica in tempo reale dei miliardari di Forbes, solo Elon Musk ha accusato perdite maggiori nelle ultime 24 ore (6,9 miliardi). Ma la fortuna totale di Musk – 212 miliardi di dollari alle 11.20 di oggi – è quasi sette volte quella di Ma Huateng, che arriva a 30,9 miliardi.
Hong Shanshan, re dell’acqua minerale e uomo più ricco della Cina, ha visto sfumare invece 4,7 miliardi. Poco più dei 4,6 persi da Yang Huiyan, co-presidente della società di sviluppo immobiliare Country Garden e donna più ricca del Paese secondo la classifica 2021 di Forbes. I loro patrimoni sono ora di 61,1 e 14,1 miliardi di dollari.
La guerra in Ucraina
La più ovvia causa del crollo del mercato cinese è la guerra in Ucraina. Se è vero che tutte le Borse hanno risentito del conflitto, a Hong Kong ha pesato anche la vicinanza tra Cina e Russia. La scorsa settimana Pechino ha addossato alla Nato e agli Stati Uniti le responsabilità della guerra, mentre il Financial Times, poche ore fa, ha scritto che la Cina sarebbe “disponibile” a fornire armi alla Russia, inclusi missili, droni e veicoli corazzati.
Washington ha avvertito perciò che “il sostegno a Putin avrebbe delle conseguenze”. Gli investitori temono dunque che anche la Cina possa essere oggetto di sanzioni come quelle che hanno colpito la Russia, dove la Borsa è chiusa dal 28 febbraio e non riaprirà nemmeno questa settimana.
La situazione interna
Non basta la guerra, però, a spiegare la situazione cinese. Né sono sufficienti fattori che incidono su tutti i mercati del mondo, come il probabile annuncio della Federal Reserve di un aumento dei tassi di interesse. Alcune cause, infatti, vanno cercate a Pechino.
L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata poche settimane dopo che l’Ufficio nazionale di statistica cinese aveva comunicato, per il 2021, una crescita del Pil dell’8,1%, ma con una frenata nel quarto trimestre (+4%). L’economia del Paese, scriveva l’istituto, “è di fronte a una triplice pressione dovuta alla contrazione della domanda, allo shock dell’offerta e alle aspettative sulla congiuntura dei mesi a venire, che sono più deboli del previsto”. Ancora il 27 febbraio, l’agenzia di rating Fitch diceva di aspettarsi “un rallentamento” dei consumi in Cina.
Lunedì 14 marzo Pechino ha inoltre registrato 5.200 casi di Covid-19, il numero più alto da due anni. Una cifra molto più bassa, per esempio, rispetto ai 28.900 nuovi positivi rilevati nello stesso giorno in Italia, ma sufficiente a far scattare lockdown di massa in un Paese che continua ad adottare misure di contenimento molto severe.
Xi Jinping contro i colossi tecnologici
Il 28 febbraio Forbes.com ha pubblicato un articolo intitolato: Il peggio è passato per i giganti cinesi di internet?. Il riferimento era alla lotta avviata dal presidente cinese, Xi Jinping, contro le grandi aziende tecnologiche. La risposta era negativa. “Non è chiaro per quanto tempo andrà avanti la stretta dei regolatori. La scorsa settimana le autorità hanno emanato nuove linee guida in cui chiedono alle aziende che consegnano cibo di tagliare le commissioni imposte ai ristoranti”. Meituan, leader sul mercato cinese, ha bruciato 26 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato nel giorno successivo all’annuncio.
Altre restrizioni riguardano il settore dei videogiochi. Le autorità, che sul finire dell’estate avevano imposto un limite di tre ore di gioco a settimana per i minori, non concedono nuove licenze da luglio. Secondo il Wall Street Journal, inoltre, una delle aziende più colpite – proprio la Tencent di Ma Huateng – potrebbe essere sul punto ricevere una multa record per avere violato le regole sul riciclaggio di denaro della Banca popolare cinese.
Resta poi ancora la questione del mercato immobiliare, scosso dal tracollo di Evergrande, secondo sviluppatore immobiliare del Paese. Un settore che, secondo alcune stime citate da Forbes.com, è responsabile di un quarto del prodotto interno lordo cinese.
Cina vs. Stati Uniti
Ai problemi interni si somma poi lo scontro commerciale ancora in corso con gli Stati Uniti. L’ultimo atto è stato il documento con cui la Securities and Exchange Commission (Sec, la Consob americana) ha avvisato del rischio di delisting, ovvero di cancellazione dai listini, cinque società cinesi quotate a Wall Street: le aziende biotecnologiche BeiGene, Sai Lab e Hutchmed, la società di fast food Yum China e il produttore di semiconduttori Acm Research. Secondo la Sec, le società non avrebbero fornito documentazione sufficiente a sostegno delle loro dichiarazioni finanziarie.
Negli ultimi giorni della sua presidenza, Donald Trump aveva emesso un ordine esecutivo con cui vietava gli investimenti statunitensi in aziende controllate da Pechino. La linea di Washington, mantenuta anche dall’amministrazione Biden, ha già portato al delisting di alcuni grandi gruppi cinesi delle telecomunicazioni, come China Mobile, China Telecom e China Unicom.
Il 14 marzo, Forbes ha scritto che “il valore di mercato delle dieci maggiori compagnie cinesi quotate negli Stati Uniti è sceso di oltre 1.100 miliardi di dollari rispetto ai massimi storici toccati durante la pandemia”. E tre giorni prima citava alcuni analisti convinti che oltre 200 compagnie cinesi fossero a rischio delisting. “Il punto cruciale della questione”, sosteneva l’articolo, “è che Pechino vede da tempo i documenti di revisione come segreti di stato”. Il governo cinese, in altre parole, è convinto che consegnare i registri a regolatori statunitensi “potrebbe mettere in pericolo la sicurezza nazionale”, perché le carte potrebbero contenere dati economici sensibili o informazioni su “progetti legati allo stato”.
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