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“[…] Esiste la storia ed esiste la fantasia. Quando la storia non combacia con le proprie scelte ideologiche, si esercita la fantasia. E si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. […] Moro è stato ucciso dalle Brigate rosse e le Brigate rosse sono un fatto tutto italiano e, come dice giustamente quella gran signora di Rossana Rossanda, nel suo bel libro “ritratto di famiglia”, è una cosa tutta interna alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza. Io conosco tutti quelli che hanno rapito, hanno custodito, non ho conosciuto quello che ha ucciso Aldo Moro […]. Loro si limitano […] a confermare le cose che sono accertate dalla giustizia. Non negano mai. Però non denunciano mai nessuno. Per esempio non hanno mai fatto il nome – e mai lo faranno – dei due motociclisti che esaminarono la zona e poi fecero da staffetta”.
A trent’anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta in via Fani, Roma, il 16 marzo del 2008 sono queste le parole di Francesco Cossiga intervistato da Roberto Arditti per Il Tempo. Un incipit quanto mai adatto per l’articolo che state leggendo e che, sicuramente, avrebbe fatto storcere il naso al picconatore che, stando a chi l’ha conosciuto bene, si portò dietro fino all’ultimo dei suoi giorni il dolore (e forse il rimorso?) per l’uccisione del politico e statista rapito e sequestrato per 55 giorni, prima che il suo corpo venisse ritrovato rannicchiato e crivellato di colpi nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, sempre Roma, la mattina del 9 maggio 1978.
Quest’anno di anni ne saranno passati 44 e a risentire queste parole viene da farsi più di una domanda, ma non è questa la sede.
Testimonianze dirette, processi, commissioni d’inchiesta, libri, un memoriale (quello di Valerio Morucci), perizie balistiche non hanno fatto chiarezza su come siano andate esattamente le cose in via Fani, quando a perdere la vita furono cinque servitori dello Stato: Oreste Leonardi, maresciallo dei carabinieri e responsabile della sicurezza di Aldo Moro; Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista del politico pugliese; i poliziotti Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino. Trucidati. I primi due – Leonardi e Ricci – da un fuoco preciso, quasi millimetrico, che spense le loro vite come si spegne una luce pigiando l’interruttore. I restanti tre, che seguivano con un’Alfetta di scorta la Fiat 130 su cui viaggiava Moro, investiti da un muro di proiettili (quasi 100). Colpi sparati da chi e da dove, non è dato sapersi con certezza. Come nulla in questa vicenda.
Proprio concentrandosi sull’agguato – che il leader di Potere Operaio Franco Piperno definì di “geometrica potenza” – nel corso degli anni sono fioccate molte teorie. Tra chi è sicuro che a portare a termine l’agguato siano stati i Berretti verdi americani; tra chi giura che a sparare furono i terroristi rossi della Raf tedesca; tra chi porta avanti la tesi di un super gruppo di fuoco guidato da Carlos lo Sciacallo e chi si azzarda a scomodare anche Goldrake e i Cavalieri dello Zodiaco. E c’è anche chi sostiene convintamente che Aldo Moro non fosse presente in macchina quella mattina. Proprio così.
Sono in molti a non ritenere possibile che Moro – seduto nella Fiat 130 – possa essere rimasto illeso sotto quella grandine di piombo abbattutasi sulla sua scorta. Sono in molti, anche, a sostenere questa teoria basandosi sul fatto che dalla prigione del popolo, nell’arco dei 55 giorni di prigionia, Aldo Moro non abbia scritto una riga in memoria dei suoi uomini massacrati, quasi fosse all’oscuro di quanto accaduto. Su questo punto, si può porre immediatamente un’obiezione: non tutte le lettere vennero consegnate dai brigatisti ai rispettivi destinatari. C’è dunque la possibilità che Moro avesse scritto rivolgendosi alle famiglie delle vittime (in particolare alla moglie di Leonardi, con cui era legato anche da un’amicizia di vecchia data). Sempre sul punto, vale la pena riportate quanto sostenuto da Miguel Gotor – grande esperto del caso Moro e attuale assessore alla Cultura del Comune di Roma – che nel corso della trasmissione web Dark Side – storia segreta d’Italia, in occasione del 16 marzo 2021, ha detto che un accenno alla scorta c’è e si trova in una lettera alla moglie mai recapitata, ritrovata nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano, solamente nell’ottobre 1990.
La lettera in questione (ritrovata in fotocopia) fu scritta il 26 marzo 1978 (lo si evince da alcuni riferimenti alla domenica di Pasqua, che cadeva proprio quel giorno). Moro scrive: “Per quanto mi riguarda non ho previsioni né progetti, ma fido in Dio che in vicende sempre tanto difficili non mi ha mai abbandonato. Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione”. Secondo Gotor, sarebbe questo il riferimento – ovviamente implicito – alla scorta massacrata.
“Al di là del fatto che c’è questo riferimento testuale”, ha sostenuto lo storico e curatore di una fondamentale edizione del memoriale Moro, “io credo che la risposta [alla questione dell’assenza di riferimenti chiari alla sorte dei suoi uomini, ndr] sia sul piano logico sufficientemente stringente: se Moro avesse fatto un riferimento esplicito agli uomini della scorta morti, ecco che avrebbe posto un vero e proprio macigno sulla questione della trattativa, del negoziato segreto che lo coinvolse e coinvolse anche Paolo VI. Io credo sia questa la ragione. Una ragione squisitamente strategica”.
Ma al di là del riferimento agli uomini della scorta, c’è un altro elemento sul quale puntano coloro che sostengono la “non” presenza di Moro in via Fani: quello balistico e più in generale squisitamente tecnico/operativo. La verità giudiziaria di via Fani – che non necessariamente combacia con la verità storica – si fonda sostanzialmente sul memoriale Morucci, redatto nel 1986 e sulla cui attendibilità o meno non è questa la sede per soffermarsi.
In questo memoriale si parla di un’azione condotta da circa 11 brigatisti che, con armi obsolete – dei veri e propri residuati bellici – spararono su delle auto in progressivo rallentamento, dunque su un bersaglio mobile, colpendo un po’ dappertutto (dei colpi hanno raggiunto il secondo piano del palazzo di fronte cui si è tenuta la sparatoria). Stando alla versione riportata dal memoriale e dalle testimonianze degli stessi brigatisti rilasciate negli anni, quasi tutti i partecipanti all’agguato ebbero problemi con le armi, che s’incepparono. Insomma, più che un agguato di “geometrica potenza” quello trasmesso dalla vulgata ufficiale sembra un Circo Barnum. Letale, ma pur sempre un circo.
Naturale, allora, prestare il fianco a interpretazioni diverse della vicenda, magari in netto contrasto con quella ufficiale. Ma quando queste interpretazioni vengono argomentate e quando l’interlocutore che le propina non è esattamente l’ultimo arrivato, allora la curiosità cresce e, al di là di come la si pensi, può valer la pena ascoltare e cercare di fare una riflessione per quanto possibile scevra da preconcetti. Nello specifico, sono state diverse le persone con cui abbiamo parlato. Nessuna di loro – per svariate ragioni – ha voluto metterci la faccia. Una sì.
“Ci tengo a precisarlo – ha esordito la prima volta – non ho mai fatto parte dei servizi segreti o informativi che dir si voglia, né italiani, né stranieri”. Incontriamo l’ex generale di Divisione dell’Arma del Genio Piero Laporta – in congedo dal 2010 – in un’area aperta, priva di traffico, della Capitale. Fa freddo, tira un vento di tramontana che non fa sconti, ma l’incontro avviene al centro di un prato privo di ripari. I telefoni in macchina, come richiesto alla nostra prima telefonata.
“Lavoro sul caso Moro, e nello specifico sull’agguato di via Fani, da vent’anni. Da quando ho smesso di credere alle volgari bugie che sono state dette nel corso del tempo”.
Il generale Laporta, durante i nostri vari incontri, tutti avvenuti con modalità simili al primo, ci illustra il suo lavoro poderoso, un lavoro propedeutico alla stesura di un libro che – sostiene lui – promette non solo di far discutere, ma “di ribaltare il lavoro fatto in questi 44 anni da processi, commissioni e perizie”.
Aldo Moro – secondo lui – non era in macchina quella mattina: “Vi furono una serie di preparativi, che partirono da almeno cinque anni prima dei fatti e si esplicitarono fino a mezz’ora prima dell’agguato”. Laporta si riferisce in particolare alla notizia trasmessa da Radio Città Futura il 16 marzo, poco dopo le 8 del mattino, mentre Moro era ancora a casa in attesa della scorta, di un possibile rapimento dello statista. Un episodio controverso, ben ricostruito dal giornalista Marcello Altamura in un libro, La borsa di Moro, oggi fuori commercio.
“È probabile che proprio a seguito di questo messaggio radiofonico – ci spiega il generale esplicitando la sua teoria – qualcuno si sia presentato a casa di Moro mentre arrivava la sua scorta. Questo qualcuno potrebbe aver convinto Leonardi, che non era certo uno sprovveduto, della necessità di prevenire un eventuale rapimento prendendo in custodia Moro e facendo comunque sfilare le macchine di scorta lungo il tragitto stabilito quella mattina, magari con l’accordo di ritrovarsi da un’altra parte. A quel punto, i cinque agenti della scorta erano testimoni scomodi. Dovevano morire”.
A questo, Piero Laporta aggiunge una serie di minuziose considerazioni pratiche e balistiche, ma dal suo punto di vista, la prova principe che Moro non si trovasse nella Fiat 130 quando questa venne investita di piombo, sta nelle parole dello stesso rapito. E qui dobbiamo fermarci.
L’ex generale sostiene di avere tra le mani degli elementi assolutamente inediti e assolutamente sconvolgenti. Noi de IlGiornale.it questi elementi abbiamo avuto la possibilità di vederli. Non sta a noi valutarne l’attendibilità, non ne abbiamo la capacità e nemmeno la presunzione, ma senza dubbio si tratta di materiale interessante. Abbiamo promesso al generale di non parlarne fin quando non avrà terminato di lavorare al suo libro, ma ci siamo assicurati l’anteprima quando sarà il momento di divulgarli, nell’assoluta certezza che si alzerà un polverone o che verrà steso un velo di silenzio.
“Vedete – conclude Laporta nel nostro ultimo incontro – la commedia di via Fani non poteva essere portata a termine se non ci fosse stata la regìa concordata di cinque attori fondamentali”. Anche chi siano questi attori secondo il generale, ve lo sveleremo a tempo debito.
Quello che in conclusione possiamo dire è che, al di là delle intime convinzioni, al di là di qualsiasi polemica – giusta o strumentale che sia -, resta il ricordo, e il dolore sempre vivo, per cinque vite stroncate. Perché l’unica certezza del caso Moro sono loro, gli uomini della sua scorta. Morti senza saperne il perché, lasciando famiglie distrutte che solo con enormi sforzi hanno trovato la forza di rialzarsi. La nostra vicinanza va a loro.
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