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Né un passo avanti, né uno indietro. Sia sul piano militare, sia per quanto riguarda i negoziati. Il conflitto ucraino è la fotografia dello stallo. Uno stallo pericoloso, perché, invece di spingere i belligeranti a scegliere la strada dell’intesa e del compromesso, rischia di avvelenare i rapporti al punto da rendere impossibile ogni mediazione (basta dare un’occhiata ai discorsi di Putin, di Zelensky, di Biden), di cristallizzare le posizioni, di alimentare le rivendicazioni. Solo che trascorrere settimane e settimane sul filo del terrore e dei bombardamenti mentre le vittime si moltiplicano in tutti e due i campi, aumenta il rischio di imprevisti, di incidenti e avvolge nella psicosi della guerra l’intera comunità internazionale. Anche se i missili cadono solo su Kiev e le bombe solo su Mariupol, la Polonia ipotizza un intervento Nato a scopi umanitari in Ucraina, il Pentagono non esclude il rischio nucleare, Macron chiede all’Europa di prepararsi ad una guerra «ad alta intensità» e sull’altro fronte le analisi dello Zar sul conflitto e le sue possibili prospettive hanno il linguaggio di ghiaccio del cinismo. A parole sia gli ucraini, sia i russi dicono che la guerra non sarà lunga: a Kiev pensano che in dieci giorni si possa arrivare all’intesa; mentre al Cremlino credono nella possibilità di piegare il nemico in tre settimane. In realtà queste previsioni sono il riflesso della convinzione presente in entrambi i campi che il tempo lavori contro l’avversario.
Una convinzione che però non si basa su dati reali, ma su ipotesi, se non addirittura su speranze. A Mosca confidano sul fatto che alla fine gli ucraini, ridotti alla fame, alzeranno bandiera bianca; a Kiev, invece, sono convinti che la Russia, dopo aver evitato il default mercoledì scorso quando doveva pagare dividendi per le obbligazioni in scadenza per un ammontare di 117 milioni di dollari, dovrà onorare altre due scadenze con importi ben maggiori (una di 615 milioni di dollari il 31 marzo e un’altra di due miliardi il 4 aprile) e, comunque, dal 25 maggio le sanzioni gli bloccheranno i trasferimenti finanziari, per cui sarà messa nelle condizioni di non poter pagare e ci sarà il default. Quelle di Mosca e quelle di Kiev, però, sono speranze non si sa se ben riposte. Anzi, più che speranze si potrebbero chiamare scommesse. Per cui nulla esclude che lo stallo possa incancrenirsi, che possa protrarsi per mesi e diventare alla fine la soluzione di «un conflitto senza soluzione». Come avvenne in Corea nel 1953, dove non si è arrivati ancora ad una vera pace. O in Vietnam, dove la guerra si protrasse per venti anni. Ma un conto è avere un Vietnam in Indocina, un altro è averlo a 1627 chilometri in linea d’aria da Roma. L’Europa può permettersi un Vietnam alle porte di casa? Probabilmente no. Solo che se un tempo l’equilibrio bipolare prevedeva che i conflitti «senza soluzione» avvelenassero regioni lontane per noi occidentali come l’Asia e l’Indocina, il nuovo equilibrio multipolare, che è tutto da costruire, potrebbe determinarle alle porte di casa. Come risultato della vena di follia di chi pensa di poter riportare indietro le lancette della Storia, ma anche per la strategia di chi ha tutto l’interesse che l’Occidente si dibatta nelle sue contraddizioni e nei suoi guai (vedi, ad esempio, la Cina). Questo è il vero rischio per noi europei. Non a caso ieri la telefonata tra Biden e Xi non ha portato a nulla a parte un fiume di parole. Anzi, un risultato c’è: la guerra continua.
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