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Il reporter Mstylav Chernov e il fotografo Evgeniy Maloletka, della Associated Press, hanno documentato in questi giorni i bombardamenti dei civili e l’orrore dell’assedio nella citt ucraina. Questo il racconto di come hanno lasciato la citt: Sapremmo dove andare per raccontare le bombe al teatro e sulla scuola. Non possiamo pi farlo
I russi ci stanno dando la caccia, hanno una lista di nomi, compresi i nostri e si stavano avvicinando. Eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti nella citt ucraina e da pi di due settimane ne documentavamo l’assedio da parte delle truppe russe. Inizia cos il racconto drammatico del giornalista dell’Associated Press Mstylav Chernov che, insieme al fotografo Evgeniy Maloletka, stato l’unico a poter documentare quello che successo nella citt che affaccia sul mar d’Azov, la porta del Mar Nero, nel mirino dei militari russi sin dall’inizio della guerra perch la sua conquista permetterebbe il ricongiungimento via terra della Crimea ai territori occupati del Donbass.. Sono stati loro a scattare le foto delle donne incinte portate via in barella dall’ospedale per la maternit colpito il 9 marzo, a farci vedere le fosse comuni dove le vittime dell’aggressione russa venivano gettate per toglierle dalle strade, a mostrarci con video e immagini una guerra che la propaganda del Cremlino vorrebbe nascondere.
Due testimoni troppo scomodi per essere tollerati. Stavamo documentando quello che succedeva all’interno dell’ospedale ma alcuni uomini armati hanno iniziato a perlustrare i corridoi — racconta Chernov —. I chirurghi ci hanno dato dei camici bianchi da indossare per passare inosservati . Improvvisamente all’alba arrivano una dozzina di soldati: “Dove sono i giornalisti per la miseria?”. Guardai le fasce intorno alle braccia, blu per l’Ucraina, e cercai di capire quante possibilit c’erano che fossero dei russi travestiti. Poi mi sono fatto avanti. “Siamo qui per farti uscire” hanno assicurato loro.
Segue una fuga rocambolesca: Siamo corsi in strada, abbandonando i medici che ci avevano ospitato, le donne incinte che erano state ferite e le persone che dormivano nei corridoi perch non avevano altro posto dove andare — il racconto di Chernov —. Mi sentivo malissimo a lasciarli tutti indietro. Nove minuti, forse dieci, un’eternit attraverso strade e condomini bombardati. Quando i proiettili cadevano nelle vicinanze, ci buttavamo a terra. Il tempo veniva misurato dai colpi, i nostri corpi tesi e il respiro trattenuto. Un’onda d’urto dopo l’altra mi ha scosso il petto e le mie mani si sono raffreddate. Raggiungemmo un ingresso e delle auto blindate ci portarono in un seminterrato buio. Solo allora abbiamo appreso da un poliziotto perch gli ucraini avevano rischiato la vita dei loro soldati per portarci fuori dall’ospedale. “Se vi beccano, vi faranno dire che tutto ci che avete filmato una bugia”, ci spieg. “Tutti i vostri sforzi e tutto ci che avete fatto a Mariupol saranno vani”. Cos gli stessi che ci avevano scongiurato di mostrare al mondo la loro citt morente ora ci chiedevano di lasciarla. Era il 15 marzo. Non avevamo idea se ne saremmo usciti vivi.
L’intuizione
Chernov e Maloletka arrivano a Mariupol il 24 febbraio, un’ora prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Sanno che la citt sar un obiettivo strategico per Putin e decidono di andarci ben sapendo quali sono i rischi. L’attacco da subito brutale, le forze russe bombardano senza piet, la gente fugge e gli abitanti rimasti sembrano vicini alla resa. All’inizio non riuscivo a capire perch Mariupol stesse cadendo cos velocemente — spiega il giornalista — . Ora so che era per la mancanza di comunicazione. Senza immagini di edifici demoliti e bambini morenti, le forze russe potevano fare quello che volevano. Ecco perch abbiamo corso dei grossi rischi per poter inviare al mondo ci che abbiamo visto, ed questo che ha fatto arrabbiare la Russia tanto da darci la caccia. Non ho mai, mai sentito che rompere il silenzio fosse cos importante.
I primi morti
L’inferno si scatena in un attimo e gli unici giornalisti rimasti sul posto sono proprio Chernov e Maloletka. In citt vengono interrotte le forniture di elettricit, gas e acquai. Secondo le autorit di Mariupol i morti finora sono stati 2.400. Il 27 febbraio, abbiamo visto un dottore cercare di salvare una bambina colpita da una scheggia — prosegue il giornalista — morta. morto un altro bambino, poi un terzo. Le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti perch nessuno poteva chiamarle visto che non c’era rete e poi era pericoloso guidare nelle strade bombardate. I medici ci hanno implorato di filmare le famiglie che portavano dentro morti e feriti e di usare il loro generatore per le nostre telecamere. “Nessuno sa cosa sta succedendo nella nostra citt” ci hanno detto. I bombardamenti hanno colpito l’ospedale e le case intorno. A volte correvamo fuori per filmare una casa in fiamme e poi tornavamo indietro tra le esplosioni. C’era ancora un posto in citt per avere una connessione stabile, fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue. Una volta al giorno, andavamo l e ci accovacciavamo sotto le scale per caricare foto e video da inviare al mondo. Le scale non avrebbero fatto molto per proteggerci, ma sembrava pi sicuro che stare all’aperto. Il segnale scomparso il 3 marzo. Abbiamo provato a mandare i nostri dalle finestre del settimo piano dell’ospedale. E da l abbiamo visto disfarsi gli ultimi brandelli della solida citt borghese di Mariupol. Per diversi giorni, l’unico collegamento che abbiamo avuto con il mondo esterno stato tramite un telefono satellitare. E l’unico punto in cui quel telefono funzionava era all’aperto, proprio accanto a un cratere creato da una bomba. Mi sedevo, mi rendevo piccolo e cercavo di trovare la connessione. Tutti mi chiedevano, per favore dicci quando la guerra sar finita. Non avevo risposta. Ogni singolo giorno circolava la voce che l’esercito ucraino sarebbe venuto a rompere l’assedio. Ma non venuto nessuno.
L’ospedale bombardato
A questo punto avevo visto cos tanti morti in ospedale, cadaveri nelle strade, dozzine di corpi spinti in una fossa comune — continua Chernov—. Il 9 marzo, due attacchi aerei hanno distrutto la plastica attaccata ai finestrini del nostro furgone. Ho visto la palla di fuoco solo un momento prima che il dolore perforasse il mio orecchio interno, la mia pelle, il mio viso. Abbiamo visto salire il fumo da un ospedale dedicato alla maternit. Quando siamo arrivati, i soccorritori stavano ancora tirando fuori dalle rovine donne incinte insanguinate. Le nostre batterie erano quasi scariche e non avevamo alcun collegamento per inviare le immagini. Tra pochi minuti sarebbe scattato il coprifuoco. Un agente di polizia ci ha sentito discutere su come diffondere la notizia dell’attentato all’ospedale. “Questo cambier il corso della guerra”, ha detto. Ci ha portato in un posto dove c’era corrente e una connessione a Internet. Avevamo gi dato conto di cos tante persone morte, anche bambini. Non capivo perch il poliziotto pensasse che queste morti potessero cambiare qualcosa. Mi sbagliavo. Al buio, abbiamo inviato le immagini allineando tre telefoni cellulari con il file video diviso in tre parti per fare pi in fretta. Ci sono volute ore, ben oltre il coprifuoco. I bombardamenti sono continuati, ma i poliziotti incaricati di scortarci attraverso la citt hanno aspettato pazientemente. Poi il nostro legame con il mondo esterno stato nuovamente interrotto.
Siamo tornati in un seminterrato vuoto di un hotel con un acquario ora pieno di pesci rossi morti. Nel nostro isolamento, non sapevamo nulla di una crescente campagna di disinformazione russa per screditare il nostro lavoro.
L’ambasciata russa a Londra ha pubblicato due tweet definendo false le foto di Ap e affermando che una donna incinta era un’attrice. L’ambasciatore russo ha mostrato copie delle foto durante una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ha ripetuto le bugie sull’attacco all’ospedale per la maternit.
Nel frattempo, a Mariupol, tantissime persone ci chiedevano le ultime notizie sulla guerra. Venivano da me e mi dicevano, per favore filmami, cos la mia famiglia fuori citt sapr che sono vivo. In quel momento, a Mariupol non c’era pi nessun segnale radiofonico o televisivo ucraino. L’unica radio che si poteva ascoltare mandava in onda le bugie russe: che gli ucraini tenevano in ostaggio Mariupol, sparavano agli edifici e stavano mettendo a punto armi chimiche. La propaganda era cos forte che alcune persone con cui abbiamo parlato ci credevano nonostante la verit fosse davanti ai loro occhi. Il messaggio veniva ripetuto continuamente, in stile sovietico: Mariupol circondata. Consegna le tue armi.
In salvo
Il reportage di Chernov si conclude cos: Il 15 marzo circa 30.000 persone sono uscite da Mariupol, cos tante che i soldati russi non hanno avuto il tempo di guardare da vicino le auto con i finestrini ricoperti da pezzi di plastica che sbattevano. La gente era nervosa. Ogni minuto c’era un aereo che passava o lanciava un attacco. La terra tremava. Siamo passati attraverso 15 posti di blocco russi. A ciascuno, la madre che guidava la macchina su cui eravamo pregava furiosamente, a voce talmente alta da farsi sentire. Mentre li attraversavamo – il terzo, il decimo, il 15simo, tutti gestiti da soldati dotati armi pesanti – le mie speranze che Mariupol sarebbe sopravvissuta svanivano. Ho capito che solo per raggiungere la citt, l’esercito ucraino avrebbe dovuto passare attraverso questo. E non sarebbe successo.
Al tramonto, arrivammo a un ponte distrutto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa. Un convoglio della Croce Rossa di circa 20 auto era gi bloccato l. Abbiamo svoltato verso i campi e le stradine secondarie.
Le guardie al posto di blocco n. 15 parlavano russo con l’accento rude del Caucaso. Hanno ordinato a tutto il convoglio di spegnere i fari per nascondere le armi e le attrezzature parcheggiate sul ciglio della strada. Riuscivo a malapena a distinguere la Z bianca dipinta sui veicoli. Mentre ci fermavamo al sedicesimo posto di blocco, abbiamo sentito delle voci. Voci ucraine. Ho provato un enorme sollievo. La madre alla guida dell’auto scoppiata a piangere. Eravamo fuori. Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Ora non ce ne sono.
21 marzo 2022 (modifica il 21 marzo 2022 | 20:21)
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