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A volte, nelle situazioni disperate, per dare una ragione per resistere agli altri si deve gettare il cuore oltre l’ostacolo. È la speranza che dà coraggio. E ieri Mario Draghi, dicendo chiaramente davanti al Parlamento italiano, senza timori o infingimenti, che «l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione Europea» ha dato a quel popolo assediato, sotto le bombe, la speranza. È stato il primo tra i premier europei a spezzare questa lancia in suo favore qualche giorno dopo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. È un merito che va riconosciuto al premier perché ha cominciato a ragionare non più con le regole ante-guerra, condizionato cioè dalle procedure e dai veti che ci sono nell’Unione sull’argomento, ma pensando all’Ucraina e all’Europa di domani. Perché una cosa è certa, lo scrissi il 2 marzo, neppure una settimana dopo l’inizio del conflitto, l’Ucraina che sarà – nella sua interezza di nazione nell’ipotesi migliore, senza la Crimea e il Donbass, o, secondo i disegni di Putin, divisa a metà – per sopravvivere, per non essere il teatro di un conflitto permanente, per essere garantita nella sua sicurezza ha bisogno di un ombrello internazionale. E visto che non potrà essere la Nato, l’unica strada è il suo ingresso nella Ue. È un dato imprescindibile se si vuole dare una soluzione vera alla crisi.
Ed è interesse dell’Europa, non solo dell’Ucraina. Perché è l’unica strada percorribile se si vuole pacificare quella regione: avere una crisi aperta in mezzo al continente, infatti, è una condizione che deve preoccupare tutte le capitali europee non solo Kiev. Ecco perché il tono duro di Draghi, più vicino al linguaggio dell’americano Biden e dell’inglese Johnson che non a quello del francese Macron o del tedesco Scholz, non deve meravigliare: in questo conflitto si stanno ridisegnando gli equilibri mondiali ed europei. «L’Ucraina difende la nostra pace, la nostra libertà, la nostra sicurezza», per usare una frase del premier italiano, sta ad indicare la vera posta in gioco. Ed è la ragione per cui l’Italia non si può voltare dall’altra parte.
In questa luce le argomentazioni degli scemi del villaggio, cioè dei tanti che soppesano le virgole, che guardano ancora a Mosca e fanno del pacifismo il paradigma per non schierarsi, lasciano il tempo che trovano. Nell’anno 2022 c’è un confine tra le ragioni degli Stati, la diplomazia e gli interessi di ciascuno superato il quale si ha solo torto: ed è il crimine di chi usa i carri armati, i missili, le bombe fregandosene anche della popolazione civile per imporre i propri interessi. In queste circostanze le ragioni perdono valore e tutto si riduce ad uno scontro tra civiltà e barbarie.
È quello che bisogna tenere in mente quando si parla della guerra in Ucraina. Con una domanda che dovrebbero porsi allo specchio quei parlamentari che ieri hanno ascoltato Zelensky a Montecitorio, e magari anche noi: il popolo ucraino è pronto a combattere per salvaguardare la propria nazione, la democrazia e il desiderio di entrare in Europa, noi saremmo capaci di fare lo stesso? O da noi, al di là della retorica di ogni colore, le parole patria, nazione, democrazia hanno perso valore al punto da renderci incomprensibile il coraggio e il sacrificio di quel popolo?
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