Ven. Nov 22nd, 2024

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Il ritorno della guerra in Europa ha portato giornali e tv di tutto il mondo a rinnovare investimenti importanti in uomini e risorse per raccontare il conflitto sul posto: l’invasione russa in Ucraina ha quindi riportato al centro della scena mediatica il lavoro dei corrispondenti di guerra, che negli anni passati avevano lavorato come testimoni di conflitti con minori visibilità e attenzioni da parte dei lettori europei, mentre la crisi economica dei giornali sottraeva in generale risorse al loro impiego.

Fino a venti o trenta anni fa i conflitti erano raccontati con maggiore frequenza da figure specializzate presenti in ogni grande giornale, i cosiddetti “inviati di guerra”: pronti a partire per gli angoli più disparati del mondo, spesso con una lunga esperienza e con relazioni consolidate con i colleghi incontrati in vari momenti di tensione in diversi continenti. Oggi, per la riduzione dei costi, queste professioni sono più rare e la comunità internazionale degli “inviati di guerra” è ridotta a poche persone delle testate più grandi, che dispongono dei mezzi economici maggiori, a cui si aggiungono reporter abitualmente dedicati ad altri contesti.

I fronti di guerra che nel corso del 2021 hanno causato più di mille morti sono stati ventitré, secondo l’Uppsala Conflict Data Program. Molti sono stati raccontati solo parzialmente e hanno faticato a entrare nell’agenda dell’informazione. Nella maggior parte dei casi i giornalisti che se ne sono occupati erano freelance: reporter e fotografi indipendenti che scelgono di recarsi a proprie spese nelle regioni dove si svolgono gli eventi, vendendo poi servizi, articoli, video e fotografie a vari soggetti del mondo dell’informazione.

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Molti sono arrivati anche in Ucraina: la relativa semplicità nel raggiungere il fronte e la grande richiesta da parte di giornali e tv – che hanno comprensibilmente rivoluzionato palinsesti e aumentato le foliazioni – ha portato molti freelance europei a muoversi autonomamente per arrivare sul posto: tra di loro c’è anche chi ha scelto di approfittare delle nuove opportunità digitali per promuovere e sfruttare il proprio lavoro al di fuori delle testate, attraverso video, podcast, newsletter, social network.

Ma per la guerra russo-ucraina è alto anche il numero degli inviati dipendenti dalle testate riconosciute: Stati Uniti e Regno Unito hanno mandato sul “campo” oltre 50 di questi giornalisti ciascuno. I rappresentanti delle grandi organizzazioni sono quasi sempre appartenenti alle redazioni Esteri, con esperienze discontinue dalle zone di conflitto.

Il mestiere di corrispondente di guerra, la cui nascita si fa comunemente risalire alle cronache di William Howard Russell dalla guerra di Crimea (1853-1856), è stato raccontato in passato con toni romantici e letterari ma ha vissuto una costante evoluzione che lo ha reso in tempi recenti più accessibile ma ancora più pericoloso. Richiede preparazione e attrezzature specifiche, oltre a una capacità di muoversi in contesti complessi e imprevedibili, per i quali sono fondamentali esperienza e appoggi esterni, sul posto e in patria.

Il CPJ (Committee to Protect Journalists), organizzazione non profit statunitense per la protezione dei giornalisti e della libertà di stampa, raccoglie indicazioni e prescrizioni di base per i reporter impegnati in zone di guerra. Per ridurre i rischi nelle aree di conflitto ci sono alcuni passaggi necessari: un corso preparatorio, un’assicurazione specifica, una linea di contatto continua con colleghi sul posto e in patria, un’attrezzatura adeguata, la conoscenza approfondita della regione e delle forze in campo.

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«In realtà sempre più spesso capita di incontrare al fronte colleghi, freelance e non solo, completamente digiuni di tutto», racconta Ugo Lucio Borga, fotogiornalista con esperienza pluridecennale nelle zone di guerra di mezzo mondo. Dal 2015 ha fondato con il giornalista Cristiano Tinazzi il “War Reporting Training Camp”, che fornisce una formazione di base per ridurre i rischi nelle zone di guerra e per creare una rete di collaborazione e mutuo soccorso fra reporter.

Il corso, sei giorni fra teoria e pratica in Val d’Aosta, tocca le necessità di base del lavoro sul campo: primo soccorso per traumi di origine bellica («Fondamentale è sapere come interrompere emorragie, anche imponenti, in breve tempo»); rianimazione; conoscenza di funzionamento e balistica dei vari tipi di armi e di esplosivi anche artigianali; sicurezza informatica dei dati raccolti; gestione delle crisi psicologiche; sopravvivenza e fuga; precauzioni per evitare i rischi di sequestro o per gestirlo; riduzione della dipendenza dalle fonti energetiche e dalle strumentazioni digitali.

«È importante sapersela cavare, sapersi orientare anche quando non è possibile o non è consigliabile usare strumentazioni satellitari» racconta Borga, che sottolinea quanto sia necessaria un’attrezzatura adeguata. La base sono un kit di primo soccorso (con lacci emostatici e aghi da sutura), i giubbotti antiproiettile (il cui peso e livello di protezione va calibrato in base al tipo di minaccia), elmetti e occhiali protettivi. Ma anche l’abbigliamento: «Bisogna evitare qualsiasi indumento, come ad esempio certi scarponi, che ci possano far confondere con dei belligeranti. Meglio lasciar stare anche i kit tecnici, comodi e utili ad ogni temperatura, ma che sono diventati la divisa informale dei contractors, le compagnie militari private».

Il lavoro in zona di guerra poi ha bisogno di un’organizzazione preventiva per garantire le necessità di base come dormire, mangiare, avere accesso alla corrente elettrica e, se possibile, a una connessione stabile. Spesso ci sono hotel che rimangono aperti e diventano veri e propri campi-base per la comunità dei giornalisti internazionali, ma non sono immuni da blackout, esaurimento delle scorte di cibo, bombardamenti.

La giornalista Cecilia Sala, che ha cominciato a frequentare le zone di guerra da poco, in una puntata del podcast Stories dall’Ucraina raccontava la sua dotazione di cibo per far fronte a un’eventuale emergenza: «Crackers, formaggio già affettato, il mango essiccato che è iper-calorico, una confezione di riso, che si cucina anche con un bollitore in albergo e riempie, il caffè solubile». Torce con molte batterie e power-bank supplementari sono indicate da molti giornalisti esperti come utili.

Le innovazioni digitali hanno semplificato e reso più immediati collegamenti e trasmissioni, ma hanno aumentato la dipendenza dalle fonti di energia, come racconta Evan Wright di Rolling Stone: «Connettersi al satellite non è sempre scontato, prende tempo, e scarica le batterie. È il grande problema tecnico di quando sei sul campo: sei completamente vincolato dalla necessità di ricaricare i tuoi strumenti di lavoro».

Oggi in Ucraina una parte del racconto del conflitto arriva da video, foto e notizie provenienti da semplici persone dotate di un telefono (il cosiddetto citizen journalism, che pone però problemi di attendibilità e possibili condizionamenti della propaganda) e che spesso attraverso i social network ne diventano autonomamente editori. Ma per trasmissioni video in diretta serve una connessione più solida e garantita, fornita ormai in quasi tutti i casi dagli “zainetti per lo streaming mobile”, che in dimensioni trasportabili svolgono le funzioni per cui in passato erano necessari impianti più voluminosi e “stanziali”.

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La logistica e l’organizzazione degli spostamenti per raggiungere i luoghi degli eventi o i protagonisti da intervistare possono occupare porzioni importanti della giornata. I corrispondenti di guerra sul campo si appoggiano a tre figure fondamentali: gli autisti, gli interpreti, i fixer. Avere autisti affidabili ed efficienti può fare la differenza fra raggiungere un sito bombardato o restare bloccati in albergo, ma è decisivo anche per superare posti di blocco.

L’importanza di un buon interprete nel capire il contesto e raccontare storie è facilmente intuibile, mentre i fixer sono protagonisti fondamentali e non sempre conosciuti del lavoro giornalistico in zone di guerra e non solo. Sono giornalisti o collaboratori del mondo dei media locali che vengono “assunti” dagli inviati come traduttori e guide, e per altri vari compiti di supporto.

Quando collaborano attivamente alla scrittura degli articoli vengono definiti “stringer”, ma più spesso svolgono il lavoro meno visibile ma prezioso di organizzazione: hanno contatti e numeri di telefono, conoscono storie e preparano il terreno per interviste, sanno di quali soggetti fidarsi e sanno valutare pericoli e possibilità degli spostamenti. In alcuni contesti in cui la guerra è una costante hanno rapporti stretti con autorità o ribelli e diventano veri punti di riferimento per tutti i media.

Spesso sono i primi a dare consigli essenziali di sopravvivenza su terreni pericolosi. «Come non avere mai bagagli fra sé e la portiera di un’automobile, per poter abbandonare il veicolo all’improvviso o tenere i finestrini chiusi per evitare schegge», racconta Borga. E possono aiutare a completare la visione parziale dell’inviato che, pur costruita in base all’esperienza diretta, gli ha permesso di indagare solo una porzione ristretta dell’area del conflitto.

La storia del giornalismo di guerra è passata per varie fasi, legate anche alle possibilità di accesso dei giornalisti al reale luogo degli scontri. La guerra del Vietnam, con i reporter che affiancavano i marines in prima linea, è stata la prima raccontata giorno per giorno in diretta e portata attraverso i televisori nelle case degli americani. Il grande movimento contro la guerra nato anche da quelle testimonianze ha portato poi governi ed eserciti a una maggiore diffidenza per la presenza dei reporter sulle scene del conflitto: la Prima guerra del Golfo è stata esemplare in questo senso, con i media di tutto il mondo “bloccati” nei quartier generali americani e informati attraverso i dispacci ufficiali.

Altre guerre, come quella della ex Jugoslavia, hanno riportato i giornalisti al centro dei combattimenti, ma hanno anche mostrato una loro maggiore vulnerabilità. Scott Anderson, noto corrispondente di guerra americano per varie testate, spiega in una intervista per presentare il libro The War Correspondent: «A metà degli anni ’80 nella guerra sporca di El Salvador potevi scrivere “TV” con il nastro adesivo sull’auto e andare avanti e indietro tranquillo nella terra di nessuno. Sei o sette anni più tardi in Bosnia era completamente diverso. Scrivere “Press” o “TV” sulla tua auto era come disegnarci un grosso bersaglio sopra».

Da allora decidere di farsi riconoscere come giornalisti o nascondersi è diventata una scelta da compiere con attenzione, anche in virtù del rischio crescente di rapimenti. E in Siria, dove secondo un bilancio di Reporters sans frontières i giornalisti morti nei dieci anni di guerra civile sono stati oltre 300, sono venute meno le ultime certezze sulla salvaguardia della sicurezza dei giornalisti. In un conflitto che faticava a “fare notizia” l’attenzione è stata risvegliata a volte proprio da vittime celebri, come Marie Colvin a Homs. L’invasione russa in Ucraina nelle prime due settimane ha già ucciso un giornalista, il cameraman ucraino Yevhenii Sakun, morto durante il bombardamento alla torre della televisione di Kiev. E una troupe di Sky News UK è stata oggetto di un agguato, con due feriti fra gli occupanti dell’auto colpita da numerosi proiettili.

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