Sab. Nov 23rd, 2024

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di Marco Imarisio

Roman Abramovich deve tutto al Cremlino e ha sempre risposto «presente», anche quando fu mandato a fare il governatore in Siberia. Ora si è proposto di mediare, ma sa bene che non può sgarrare. Il presunto avvelenamento sarebbe un avvertimento

Chissà se è per via di quella foto. Anni fa, i giornalisti convocati per la prima intervista a Roman Abramovich, proprietario del Chelsea che aveva appena vinto il titolo della Premier league, notarono l’immagine in bianco e nero di una donna dentro una piccola cornice. Quando gli chiesero chi fosse quella persona, il miliardario dallo sguardo timido tagliò corto. «È mia nonna», disse. E fu lui per una volta a cambiare argomento. Si chiamava Faina Mikhailenko. Era nata e cresciuta a Kiev, come suo marito Vasily. Fuggì dalla capitale ucraina nel 1941, mentre le truppe naziste stavano invadendo il suo Paese. E così facendo si salvò dal massacro di Babyn Yar, avvenuto tre mesi dopo la sua partenza, dove vennero uccisi oltre trentatremila ebrei ucraini. Con sé, Faina portava la sua ultima figlia, di appena due anni, Irina, che nel 1966 avrebbe messo al mondo un bambino chiamato Roman.

Le settimane folli dell’oligarca più famoso e riservato del mondo erano cominciate con la ribellione della figlia Sophia, che con una storia su Instagram era stata la prima figlia dei «russi occidentali», a dire no alla guerra. Era il 26 febbraio. Pochi giorni dopo, nella sorpresa generale, mentre alcuni suoi colleghi oligarchi prendevano posizione contro l’operazione militare speciale e lui taceva come di consueto, era stato indicato addirittura da Volodymyr Zelensky come negoziatore per i colloqui di pace. E subito era trapelata la notizia che avesse accettato solo dopo aver ottenuto il benestare del Cremlino.

Sembrava quasi un orpello, la sua presenza. Invece, l’ormai ex proprietario del Chelsea, cittadino russo, lituano, portoghese e israeliano, ci ha provato. Lo testimoniano le rotte percorse dal jet affittato da una compagnia privata turca, con viaggi continui tra Mosca, Istanbul, Kiev, Varsavia, Minsk. Il presidente ucraino ha spiegato che l’oligarca era inserito nella delegazione russa di un non meglio precisato sottocomitato, ma che aveva esteso il suo ambito di azione alle questioni umanitarie, occupandosi di facilitare anche con risorse proprie l’evacuazione dei civili da Mariupol. Quasi un modo per schierarsi senza proferire parola. Ma in queste bizzarre negoziazioni, dove i russi al tavolo riconoscono di non avere alcun contatto diretto con il Cremlino, Roman Abramovich è sempre stato la chiave per arrivare a Putin.

E mercoledì scorso, lo ha fatto, arrivando a Mosca per portargli una nota scritta a mano da Zelensky sulla quale erano scritte le condizioni per mettere fine alla guerra. «Digli che lo distruggo», sarebbe stata la risposta di un Putin dall’aria cupa. Poco importa la relativa gravità dell’avvelenamento subito lo scorso 3 marzo da Abramovich e dagli altri tre diplomatici ucraini.

Il gruppo Bellingcat, agenzia di giornalismo investigativo con sede in Olanda, è riuscito anche a entrare in possesso di alcune foto che documentavano lo stato di Abramovich dopo l’avvelenamento avvenuto tramite cioccolato e acqua, gli unici alimenti consumati quella sera dalla delegazione. E basandosi su analisi fatte da remoto e anche sul posto, ha stabilito che potrebbe trattarsi di un attacco chimico effettuato in dosi modeste. Un avvertimento. La cosa davvero importante è che Abramovich sapeva dove si stava infilando. Sapeva cosa succede a chi dispiace allo Zar. Era consapevole di correre un rischio.

Lui c’era, alla cena privata nella sua residenza di Novo-Ogarevo, quando una volta passati al cognac, Putin ordinò al suo amico Michail Khodorkovskij «di non finanziare più i comunisti». Quando quello rispose che non voleva obbedire, il presidente divenne paonazzo, e tutti gli ospiti vennero mandati via. Pochi mesi dopo, l’oligarca dissidente finì in un carcere siberiano.

In questi anni, Abramovich ne ha visti cadere molti, dei suoi ex compagni del Komonsol, giovani brillanti cresciuti nella Federazione giovanile del Partito comunista russo e diventati poi miliardari grazie alle privatizzazioni degli anni Novanta. Lui, ex portaborse di Boris Eltsin, è uno dei pochi di quella prima nidiata a essersi salvato. Lo ha fatto nell’unico modo possibile. Obbedendo, chinando la testa, assecondando. Quando Putin gli ordinò di fare il governatore della Cukotka, una regione ghiacciata dimenticata da Dio e dagli uomini, lui ci rimase per otto anni, dal 2000 al 2008. E finanziò di tasca sua quella regione, spendendo decine di miliardi di rubli. Tutto pur di fare contento il Presidente-padrone.

Fino allo scorso 24 febbraio. Da allora, ha fatto capire in ogni modo cosa pensa davvero di questa guerra. E infine si è messo in gioco. Certe volte, più che il richiamo del patrimonio, conta quello del sangue.

29 marzo 2022 (modifica il 29 marzo 2022 | 07:24)

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