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“Se tollereremo l’uso della forza per cambiare lo status quo, la cosa avrà impatto anche in Asia”. Così ha commentato l’escalation militare russa in Ucraina il primo ministro giapponese Kishida. Questa preoccupazione, condivisa da molti analisti occidentali, è che la situazione ucraina possa venire replicata a migliaia di chilometri di distanza, nel Mar Cinese Meridionale. La Repubblica di Cina, comunemente nota come Taiwan, è al centro di una disputa geopolitica con il governo della Repubblica Popolare Cinese di Pechino.
Dal 1949, infatti, anno della sconfitta del partito nazionalista cinese per opera del partito comunista di Mao, l’isola ospita il governo della ‘Cina nazionale’ che si considera, specularmente al Partito Comunista Cinese, l’unica autorità legittima sull’intera Cina.
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Taiwan e la miniera d’oro dei microchip
Le tensioni sono aumentate con l’elezione nel 2016 della presidentessa Tsai Ing-wen, leader del partito filo-indipendentista taiwanese inviso al governo di Pechino. Lo stesso presidente Biden ha a più riprese sottolineato l’importanza strategica del mantenimento dell’indipendenza di Taiwan dalla Cina. Nell’isola, infatti, ha sede e detiene la maggior parte dei suoi stabilimenti produttivi la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, nota con l’acronimo di Tsmc, leader globale nella produzione di chip, fondamentali per la produzione di personal computer, smartphone, apparecchiature mediche e addirittura utilizzati all’interno dei caccia F-35.
La rilevanza dei semiconduttori nell’industria tecnologica era stata evidenziata anche dal presidente Biden a margine della promulgazione del US Innovation and Competition Act quando aveva definito la competizione tecnologica come “la competizione per vincere il XXI secolo”.
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Le ambizioni della Cina
La Cina, allo stesso modo, è consapevole del ruolo fondamentale dei semiconduttori per la leadership tecnologica globale. La sua dipendenza dalle tecnologie straniere è vista dal presidente Xi Jinping e dal partito come un forte punto di debolezza nel cammino verso il ruolo di prima potenza globale. Difatti, nel 2021 la Cina è il primo mercato dei semiconduttori con oltre 192 miliardi di dollari su un mercato globale che supera i 556 miliardi, cresciuto ad un tasso record del 26% rispetto al 2020. Lo stato cinese, quindi, non può fare a meno di una nazione come Taiwan che detiene oltre il 70% delle fonderie per la produzione e il 50% degli impianti di assemblaggio-test-confezionamento dei preziosi microchip.
Sotto la protezione della Nato
Anche gli Stati Uniti, per cui Taiwan rappresenta il nono partner commerciale, sono uno dei principali importatori di circuiti integrati prodotti nell’isola. La sola Apple copre la metà della domanda di chip prodotti da Tsmc, che ha come principali clienti anche aziende come Nvidia, Broadcom, Sony e Qualcomm. La presenza di una azienda come Tsmc ha elevato la “piccola” Taiwan a nazione di altissima rilevanza nello scacchiere geopolitico globale.
Nell’agosto 2021 Biden ha affermato che, seppur Taiwan non faccia parte della Nato, l’articolo 5, che impegna a difendere un paese Nato in caso di aggressione, vale anche per Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Dichiarazioni non apprezzate dall’establishment cinese che in questi anni ha sempre rimarcato come esista “una sola Cina” e Taiwan ne sia parte integrante.
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La tentazione del colpo militare
Il governo di Pechino, però, vorrebbe riunificarsi con Taiwan senza l’uso della forza. Xi Jinping è ben consapevole che un’invasione militare porterebbe come minimo a pesantissime sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti e del mondo occidentale, isolando la Cina e la sua economia, se non addirittura ad una vera e propria guerra, anche nucleare, con la Nato. Una riunificazione “pacifica” con Taiwan secondo il modello “un paese, due sistemi” propugnato per Hong Kong e Macao è altamente improbabile con il governo in carica.
La rielezione nel 2020 di Tsai Ing-wen ha allontanato questa ipotesi e ora la Cina si trova davanti ad una scelta: abbandonare la massima di Sun Tzu del “vincere senza combattere” riprendendosi militarmente Taiwan o mantenere lo status quo per non rischiare l’esclusione dai mercati occidentali e rallentare la crescita economica.
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L’ambiguità strategica degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti, invece, mantengono quella che molti analisti definiscono “ambiguità strategica” nei confronti di Cina e Taiwan. Nel 1979 prima riconobbero ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese e pochi mesi dopo con il Taiwan Relations Act si impegnarono a fornire armi a Taiwan in caso di attacco, ma non a scendere in campo direttamente. Difendere con le armi Taiwan da un attacco cinese risulterebbe alquanto costoso e dall’esito incerto visti gli enormi progressi delle forze aeronavali cinesi. Perdere un alleato come Taiwan avrebbe, comunque, per gli Stati Uniti un potenziale risvolto economico negativo non indifferente, considerata la dipendenza della Silicon Valley dalla fornitura di chip taiwanesi. Le due principali potenze mondiali si trovano, quindi, di fronte al dilemma strategico che potrebbe cambiare le sorti non solo dell’isola di Taiwan, ma del mondo intero.
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