Ven. Nov 22nd, 2024

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di Andrea Laffranchi

Nel nuovo album «Higher» anche una canzone firmata col piccolo Noah. Ad aprile al via da Las Vegas il tour mondiale. Per ora nessuna tappa in Italia causa pandemia

Michael Bublé indica il proprio volto. Sta piangendo. «Questa non è tristezza. È felicità per l’amore che ho ricevuto». La popstar canadese fatica ancora a parlare del passato, della malattia del figlio Noah, un tumore al fegato scoperto nel 2016, quando il piccolo aveva 3 anni e che gli aveva fatto mettere in pausa la carriera. «Abbiamo fatto un ultimo esame dopo e 5 anni sta bene. Quando è uscito “Love” nel 2018 non ero ancora pronto, ero un sopravvissuto, avevo subìto il colpo. Mia moglie mi ha preso e mi ha salvato. Ho capito che non sono speciale e che nella vita tutti passiamo da momenti duri e di sofferenza. Penso a chi nel mio Paese, e intendo l’Italia (ha passaporto italiano ndr) ha perso qualcuno durante la pandemia. Sono cose che o ti distruggono o ti costruiscono, ma per certo ti definiscono. Ora sono un uomo riconoscente e felice», racconta collegato via Zoom per il lancio del nuovo album «Higher», uscito venerdì scorso.

Il nome di Noah è tatuato sull’avambraccio, assieme a quello di Elias e Vida Amber Betty, gli altri due figli avuti con la moglie, l’attrice argentina Luisana Lopilato. «Ne devo fare uno nuovo visto che è in arrivo il quarto», sorride. Noah è anche nei crediti dell’album: è co-autore della title track. «Stavo scrivendo con Ryan Tedder e gli ho detto che mio figlio mi aveva appena cantato un ritornello interessante. Lui l’ha voluto sentire e in 30 minuti è nato il brano. Abbiamo capito subito che sarebbe stata una hit».

Nei suoni di «Higher» il pop si è preso più spazio rispetto al passato, ma Bublé, anche se non è Natale, non abbandona le grandi orchestrazioni e lo swing. «Un amico mi ha detto che dopo 20 anni in cui facevo tutto io, avrei dovuto mollare qualcosa per avere un sound fresco e diverso. Nessuno è più bravo di me a fare dischi con gli standard, sono un interprete del great american songbook e sento il diritto di stare a fianco dei miei miti. Per il pop, invece, il produttore Greg Walls ha subito ha capito dove stava la linea giusta: non dovevo sembrare alla ricerca disperata di qualcosa che non sono, ma dovevo essere fresco».

A proposito di miti, Willie Nelson e Paul McCartney sono ospiti, come voce e come produttore, nelle rivisitazioni delle loro rispettive «Crazy» e «My Valentine»: «Quando ho cantato con Willie Nelson mi sono dato un pizzicotto per capire se fosse un sogno o realtà. Sir Paul l’ho contattato non per quanto ha fatto in passato, ma per quello che poteva darmi adesso. Lui è umile e la sua presenza è un insegnamento per chi gli sta attorno. Anni fa in un’intervista gli chiesero se il genio non fosse Lennon. Rispose con umiltà e senza ego che era un privilegio aver lavorato con John, George e Ringo, ma che lui sapeva che cosa aveva fatto. Quando di recente ho visto il documentario “Get Back” dei Beatles ho capito che il leader è lui: la verità arriva sempre».

A fine aprile partirà da Las Vegas il tour mondiale. Non ci sono date italiane annunciate. «A causa della pandemia c’è stato qualche problema di organizzazione, ma verrò anche in Italia, non c’è dubbio. Per me è una gioia poter suonare in 45 Paesi diversi. La mia carriera è nata prima in giro per il mondo e poi è arrivato il successo in America. Ho detto al mio manager che se c’è un posto dove non mi conoscono ancora, sono disposto ad andarci e suonare davanti a sole cinque persone: sono ambizioso come quando ho iniziato».

30 marzo 2022 (modifica il 30 marzo 2022 | 07:40)

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