Sab. Nov 23rd, 2024

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Martedì è cominciato un nuovo processo a carico della scrittrice e attrice svedese Cecilia “Cissi” Wallin, che nel 2019 era stata condannata per diffamazione per aver accusato il giornalista Fredrik Virtanen di averla stuprata. Anche questo processo ha a che fare con le denunce di Wallin: Virtanen sostiene che Wallin l’abbia calunniato anche nella sua autobiografia, pur non avendolo citato esplicitamente.

In un recente articolo del New York Times, la giornalista svedese-americana Jenny Nordberg ha definito quello di Wallin «il caso che ha ucciso il #MeToo in Svezia». Nonostante sia considerato uno dei paesi più femministi del mondo, infatti, in questi anni in Svezia almeno 12 donne che avevano denunciato di aver subìto abusi sessuali sono state condannate per diffamazione, mentre spesso gli uomini accusati non sono stati processati. Secondo Nordberg, che ha seguito fin dall’inizio le accuse verso Virtanen, questo ha a che fare con alcune peculiarità della legge e della cultura svedesi.

Nell’ottobre del 2017, all’inizio del movimento #MeToo negli Stati Uniti e in Europa, Wallin denunciò di essere stata stuprata undici anni prima, quando aveva 21 anni. In un post condiviso su Instagram – con l’immagine del suo autoritratto riflesso in uno specchio – Wallin diceva che «il potente uomo dei media che mi ha drogata e violentata si chiama Fredrik Virtanen», che al tempo era un noto editorialista del quotidiano Aftonbladet, uno dei principali giornali del paese. Nel suo post diceva di aver denunciato il presunto stupro alla polizia nel 2011 ma di aver trovato il coraggio di parlarne pubblicamente grazie al #MeToo. Descriveva la propria vicenda come la «punta dell’iceberg» e solo di uno tra i molti esempi della «cultura patriarcale e del silenzio che prevale» con «gli uomini al potere» in Svezia.

Le indagini preliminari su Virtanen, che aveva negato ogni accusa, furono archiviate per mancanza di prove. Nel gennaio del 2018 fu invece lui a denunciare per diffamazione Wallin, che nel processo di primo grado fu giudicata colpevole ed è tuttora in attesa della sentenza in appello, per cui rischia fino a due anni di carcere.

Adesso, oltre quattro anni dopo le prime accuse, Virtanen ha fatto nuovamente causa per diffamazione a Wallin, questa volta citandola in giudizio presso la Cancelleria di Giustizia in uno dei rari casi presentati all’autorità svedese che riguarda la libertà di stampa. Dopo aver ottenuto un contratto editoriale poi rescisso proprio per il timore di accuse di diffamazione, nell’agosto del 2020 Wallin pubblicò da sé l’autobiografia Allt som var mitt (“Tutto ciò che era mio”), in cui racconta degli abusi subiti. Pur non essendo nominato esplicitamente, come previsto dalla clausola del contratto originale con l’editore del libro, Virtanen ritiene che Wallin sia responsabile di diffamazione per i contenuti del memoir, come editrice.

Nel processo cominciato oggi Wallin rischia un massimo di due anni di carcere, eventualmente sommati ai due anni di pena che potrebbero esserle assegnati nel processo di appello per il post di Instagram. Se sarà ritenuta colpevole, lo stato svedese confischerà e distruggerà anche le copie invendute del suo libro.

La storia di Wallin ha creato un certo scompiglio in Svezia, un paese il cui lo stesso governo si definisce femminista.

Figlia di genitori polacchi, Wallin è cresciuta nel sud del paese e ha debuttato nel cinema nel 2005, facendosi conoscere più che altro attraverso i social network con post che riguardavano la sua vita. Virtanen invece scriveva per lo più articoli di opinione, spesso adottando un approccio femminista; come ha osservato Nordberg, tuttavia, nell’ambiente erano diffuse le voci sul fatto che avesse atteggiamenti inopportuni nei confronti delle donne. A metà del 2018 fu peraltro sospeso da Aftonbladet dopo che altre 12 donne intervistate per un articolo scritto sempre da Nordberg lo avevano accusato di molestie sessuali. Tutte comunque avevano voluto restare anonime perché era «troppo conosciuto e troppo potente».

Virtanen accusò Wallin di essere «una bugiarda patologica» e sostenne che le altre donne che lo avevano accusato avevano esagerato i suoi atteggiamenti, oppure avevano inventato le loro storie. Wallin, che sostiene che la sua carriera sia stata danneggiata dalla vicenda, cominciò invece a scrivere pezzi su argomenti come l’identità di genere e la “cancel culture” e provò anche a organizzare gruppi di solidarietà tra donne; molti però la accusarono di voler attirare l’attenzione, una cosa che in Svezia è considerata praticamente un insulto.

– Leggi anche: Il caso più importante del #MeToo in Cina è stato archiviato

Nell’ambito del movimento #MeToo decine di migliaia di donne svedesi firmarono appelli e petizioni, e tantissime parteciparono a iniziative in sostegno di chi aveva subìto abusi sessuali. Poche di quelle che avevano detto di aver subìto molestie e violenze però decisero di denunciare, e soprattutto la gran parte di loro si mostrò reticente a nominare esplicitamente gli uomini che stavano accusando, limitandosi a dire che spesso erano persone famose e potenti, tra cui politici, giudici e professori.

Come ha spiegato Nordberg, la società svedese attribuisce molta importanza al concetto di collettività e all’idea che ci si debba comportare tenendo a mente cosa è meglio per le altre persone, e non solo per se stessi. I casi di diffamazione inoltre vengono disincentivati dalla legge proprio per proteggere il diritto dei cittadini di rimanere parte della società e non farli sentire esclusi, osserva Nordberg, e possono essere bloccati dai tribunali per valutazioni che tengono conto dei danni provocati all’accusato ancora prima di verificare se le accuse siano effettivamente vere. È quello che è accaduto nel caso di Wallin: le sue accuse su Instagram furono percepite dai media svedesi come azioni «radicali» ed «estreme» e anche il tribunale di primo grado stabilì che nonostante le sue accuse fossero gravi «non era giustificabile» citare esplicitamente il presunto colpevole.

La causa non serviva a zittirla, aveva detto uno degli avvocati di Virtanen, che sostenne però che la donna non avrebbe dovuto accusarlo e citarlo esplicitamente davanti a un pubblico così ampio, cioè su internet. Secondo Wallin, il punto di vista della Svezia «è che Virtanen è una vittima e io la criminale (recidiva)».

– Leggi anche: La donna che aveva iniziato il #MeToo in Francia è stata assolta

Wallin comunque non è l’unica donna a essere stata condannata in Svezia in seguito alle denunce di abusi che aveva detto di aver subìto. Oltre a lei, sono state condannate per diffamazione almeno altre 12 donne che avevano accusato persone spesso famose o potenti, spiega Nordberg.

Julia Lindh per esempio aveva 18 anni quando cominciò a frequentare il comico svedese Soran Ismail, di dieci anni più grande di lei. Dopo un po’ di tempo, Lindh raccontò in un gruppo di Facebook degli stupri e degli abusi sessuali e psicologici subiti nella relazione con Ismail, durante la quale disse di aver ricevuto anche minacce di morte. Andò dalla polizia, che archiviò la sua denuncia per mancanza di prove, ma Ismail usò uno screenshot di un suo post nel gruppo di Facebook per denunciarla a sua volta per diffamazione, sostenendo che si volesse vendicare. Il tribunale la giudicò colpevole e le ordinò di pagare un risarcimento dell’equivalente di circa 4.500 euro a Ismail. Lindh ha perso anche il ricorso in appello.

Alcuni giornali svedesi hanno paragonato la storia di Wallin alla vicenda dell’insegnante e scrittrice svedese Ing-Marie Eriksson, che fu condannata per diffamazione per il suo romanzo del 1965 Märit. Nel suo libro Eriksson raccontava la propria storia ambientata durante la Seconda guerra mondiale a Sikås, il piccolo paese della Svezia centrale dove era cresciuta: certe descrizioni suonarono così familiari ad alcuni residenti del paese che fu accusata di diffamazione e il suo libro fu confiscato per il reato di diffamazione a mezzo stampa.



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