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Roma, 29 marzo 2022 – Il Draghi che sale al Colle subito dopo il tempestoso confronto con Conte è furibondo come mai prima. Nel lunghissimo colloquio con Mattarella, circa un’ora e mezza, non mette ancora sul tavolo le dimissioni ma la tentazione di sfidare il Movimento ponendolo di fronte a una scelta senza alternative tra resa sulle spese militari o crisi di governo è fortissima. Nel faccia a faccia a palazzo Chigi con il capo appena riconfermato dei 5stelle è tassativo: gli impegni con l’alleanza atlantica devono essere rispettati. In ballo, chiarisce, c’è la sopravvivenza del governo. “Con una divisione simile verrebbe meno il patto che tiene insieme la maggioranza“.
Spese militari, il M5S è solo. Tutti gli altri stanno con Draghi
Ma il suo predecessore non si piega. “Nessuna intenzione di ridiscutere gli accordi Nato o di far cadere l’esecutivo, ma l’aumento ora sarebbe improvvido”. Il Movimento, assicura, non è contrario a elevare i fondi per la difesa, ma in un quadro europeo e con regole definite “altrimenti sarebbe una corsa al riarmo“. Sul punto chiave Draghi gli ricorda che l’aumento progressivo degli investimenti è in corso da anni: tra il 2018 e 2021, dunque durante il governo Conte, è stato del 17%, mentre nell’ultimo anno del 5,6%. Un ceffone in faccia al suo interlocutore. Che rilancia: adesso le risorse vanno indirizzate altrove, a sostegno della popolazione e per garantire investimenti nelle fonti rinnovabili.
I due si lasciano malissimo. Almeno in apparenza senza spiragli di mediazione. Ragion per cui il premier non esclude di arrivare al redde rationem. Sin qui governo e Pd – con l’aiuto di una Giorgia Meloni iperatlantista – avevano puntato sul rimpiattino, sull’evitare cioè il voto sul nodo delle spese. Ieri, ad esempio, nella riunione congiunta della commissioni Esteri e Difesa del Senato era in discussione l’ordine del giorno di Fd’I, identico a quello votato da tutti i partiti alla Camera il 16 marzo. Il governo ha deciso di farlo proprio dando parere positivo. Il partito più grande di opposizione aveva un’occasione inestimabile per mettere kappao la maggioranza spaccata chiedendo il voto. Non lo ha fatto. “Non volevamo fare un dispettuccio agli avversari, ma stabilire un principio”, sottolinea Isabella Rauti. Spiazzati dalla scelta, M5s e LeU chiedono il voto ma la presidente della commissione Difesa, la democratica Pinotti cui spettava la decisione in assenza del collega della Esteri, Petrocelli, lo nega. Furiosi, i 5s diramano una nota bellicosa: “È inaccettabile che il governo abbia deciso di accogliere l’odg di Fd’I”.
L’esecutivo può impedire lo showdown mettendo la fiducia: finora era deciso a farlo, come era deciso a evitare il momento della verità nel Def, rinviando la quantificazione delle spese militari alla legge di bilancio in autunno. Ora però Draghi medita sull’opportunità di imboccare la strada del confronto diretto subito. È evidente che in un momento così delicato nessun governo può reggersi solo su un nascondino per evitare la conta. Così, la scelta di mettere la fiducia quando domani arriverà al voto il decreto Ucraina nell’aula del Senato è tornata in ballo. “Non è detto che il provvedimento verrà blindato”, avverte Palazzo Chigi. E pure il ministro dei rapporti con il Parlamento, D’Incà, conferma che le chances sono “50 e 50”.
Ma se anche il premier deciderà di evitare domani la resa dei conti, è probabile che la prossima settimana, quando verrà varato il Def, il governo chiederà a tutte le forze di maggioranza di esprimersi senza ambiguità a favore dell’innalzamento delle spese militari. Insomma, la crisi di governo a guerra in corso è una possibilità reale.
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