Ven. Nov 22nd, 2024

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«Abbiamo installato un sistema anticarro, una mitragliatrice 30mm e i lanciagranate fumogene. Con questa macchina da guerra i russi li rimandiamo tutti a casa». Fronte di combattimento ad est di Kharkiv, siamo a dieci chilometri dal centro città e a meno di due dall’esercito russo. L’allerta è continua, come i bombardamenti. Qui si combatte giorno e notte, da oltre un mese. Un elicottero russo prova ad avvicinarsi, parte la contraerea e lui arretra. Dopo un’ora si avvicinano due carri armati con la “Z”, il simbolo delle squadre d’invasione provenienti da est: colpi di mitragliatrice, qualche cannonata e si torna indietro. I rischi sono tutti calcolati. E nel caso in cui un blindato dovesse riuscire a passare la linea ci sono i Javelin americani sempre pronti a colpire. 

SOTTO IL FUOCO

Un missile parte da est, la contraerea risponde intercettando l’attacco. Un colpo di mortaio a poche centinaia di metri, ne sono caduti a decine nella zona lasciando crateri di 5 metri di diametro e 2 di profondità. È la quotidianità del fronte. L’ultimo check-point, prima fortificazione a difesa della città, è in una piccola foresta di pini prima della distesa di steppa. «Per favore non fotografate nulla – il sergente senza nome è categorico – Ogni dettaglio, anche il più insignificante per voi, può diventare un’informazione molto preziosa per il nostro nemico». Lasciamo la macchina sul ciglio della strada e seguiamo i militari verso il campo adiacente. Un percorso a ostacoli tra i crateri e i proiettili di mortaio inesplosi: «Seguitemi, vi mostro il nostro piccolo». Il sergente sembra elettrizzato, esaltato come un ragazzino che vuole far vedere agli amici il suo nuovo giocattolo giusto per farli morire d’invidia. In questo caso però non è proprio un videogioco, ma un veicolo corazzato per il trasporto di truppe Btr-7. 

SUI CARRI ARMATI

Nascosto in una trincea scavata appositamente per lui e coperto dalle tende militari maculate che vengono cucite a mano dalle donne di mezza Ucraina, il mezzo a otto ruote appare quasi innocuo. «Non è mica il modello base – parte subito il sergente – l’abbiamo modificato aggiungendo un po’ di sorprese per i russi». Il Btr è un mezzo da guerra storico, utilizzato già a partire dagli anni Sessanta nei paesi sovietici, è diventato famoso come “barca con le ruote” per le sue capacità anfibie e non a caso a poche centinaia di metri da qui passa il fiume Nemyshlya. «Il mezzo è pronto a muoversi in qualsiasi momento – prosegue il sergente – Ha due motori Iveco da 150 cavalli, roba italiana e quindi di qualità». Facciamo ritorno alla trincea, tre soldati sono raggruppati intorno ad una mitragliatrice pesante: uno comunica con il resto del battaglione, uno con il binocolo sorveglia la situazione mentre il terzo con il grilletto in mano è pronto a fare fuoco. La situazione però non è sempre tesa, dopo 37 giorni qui si parla di «normalizzazione delle guerra». 

VITA IN TRINCEA

I soldati non sembrano nemmeno far caso alle esplosioni e ai colpi che ogni cinque minuti interrompono il silenzio del bosco. Mentre un gruppo è pronto a dare il cambio alla mitragliatrice ci invitano a scendere nel bunker costruito sotto terra. Si percorrono pochi metri di trincea e si entra in questa stanza scavata nella terra alta poco più di un metro. Il soffitto è composto da lunghi tronchi di legno mentre le pareti sono imbottite con i sacchi di sabbia, fondamentali per attutire le esplosioni. Una scorta di armi ed elmetti a disposizione, scorte di acqua e cibo con la possibilità di scaldarsi qualcosa, una stufa – fondamentale nell’infinito inverno ucraino – e dei materassi per riposare. A comandare questo avamposto è il sergente Ihor, un giovane veterano del Donbass di 31 anni che in un momento di pausa si lascia andare alle confessioni e un po’ si fa tradire dall’emozione: «Ho visto la prima volta mia figlia quando aveva tre anni. La seconda volta quando ne aveva già cinque». Ihor era tornato a casa da appena sei mesi, aveva ripreso gli studi per diventare medico: «Voglio salvare le vite, invece sono costretto a uccidere». Lui quel maledetto 24 febbraio, primo giorno dell’invasione, se lo ricorda bene: «Alle 5 del mattino siamo stati svegliati dai bombardamenti, ho capito che la guerra era iniziata. Sapevo perfettamente cosa fare, ho preso il fucile e lo zaino e sono andato ad arruolarmi come volontario, di nuovo».

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