La nuova conta è cominciata anche a Borodyanka. Il capo della polizia, Viacheslav, prende le liste delle segnalazioni di vari familiari o di chi lo ferma per strada e gira con una squadra di militari e un camioncino. Si fermano ogni cinquanta metri: prendono la sacca bianca di plastica, fanno zig zag tra i blocchi di cemento e ferrame, poi si chinano in quattro a recuperare, uno per uno, quello che resta dei loro concittadini. Borodyanka è dove lo tsunami militare russo è arrivato per primo, travolgendo tutti il 24 febbraio e ritirandosi solo cinque giorni fa, assieme a mezza città distrutta. Quel giorno la figlia di Olga chiamò la madre fuori città: “Mamma, è arrivata la guerra”. L’occupazione in Ucraina è cominciata in quel momento.
A Vulystsya Lenina, la strada principale, gli aerei militari russi sono volati bassi, quasi a 600 metri – dicono gli abitanti – con traiettorie chirurgiche sganciando bombe andate tutte a segno, tanto da trasformare in poche ore la via dello shopping cittadino in un paesaggio post atomico. Non si è salvato neppure un negozio. Adesso alcuni palazzi non esistono più, altri sono sventrati, molte case sono state bruciate e – a differenza della vicina Bucha, che è più a sud solo di venti chilometri – la maggior parte dei morti non si vede per strada. I cadaveri sono tra le macerie, tumulati nei rifugi degli edifici crollati o in qualche campo in periferia.
“Ci sono già informazioni che il numero delle vittime degli occupanti potrebbe essere ancora più alto a Borodyanka e in alcune altre città liberate che a Bucha”, ha denunciato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Il sindaco parla di “duecento civili sotto le macerie, siamo stati la prima città ad essere bombardata. I morti li stiamo portando via adesso perché i russi non ce lo hanno permesso fino a quando sono stati qui.
Sì, è vero, hanno attivato i corridoi umanitari sei volte, ma i soldati sparavano a chiunque uscisse per strada e terrorizzavano la gente già solo disegnando quella maledetta zeta ovunque”. In effetti la ‘Z’ è sulle macchine, sulle porte dei magazzini, sui palazzi e persino la ‘N’ delle insegne è stata rovesciata per diventare un’altra lettera. Così sono rimasti tutti in trappola, perché intanto arrivavano i razzi e i proiettili dai tank su cose e persone. Dopo i primi dieci giorni di occupazione qualcuno ha tentato di bloccare tank e camion militari lanciando molotov, una prima forma di resistenza che poi però è stata annichilita.
La città è stata isolata e lo è tuttora. La prima bomba gli aerei l’hanno sganciata sul ponte del fiume che collegava Borodyanka alla strada per Irpin. E ora non c’è campo né per telefonare né per internet, ma in una scuola è stato ricreato una sorta di municipio: sono stati sistemati i registri delle persone e alcuni ripetitori per avere il wi-fi almeno nel raggio di dieci metri. “Questi ce li ha donati Elon Mask, li ha dati a tutta l’Ucraina”, dicono dei militari. Tra i corpi, Viacheslav ha recuperato anche il cadavere di un giovane sui vent’anni: era riverso a terra dietro un giardino che dà su un campo e aveva i pantaloni abbassati, una busta stretta alla testa con l’adesivo, le mani legate da una corda e dei segni sulle gambe. Il poliziotto ha provato a girarlo, poi con una smorfia si è ritratto e ha chiesto la busta. “E’ evidente che i segni sono quelli di torture”, dice. “Ci hanno detto che i soldati russi portavano via alcune persone, non sappiamo dove siano e pensiamo che siano stati martoriati”. E racconta di un’intera famiglia – madre, padre e figlia – morta in casa sotto i colpi di un carro armato.
Volodymyr, 38 anni, giace invece nel cortile di casa dopo essere stato ucciso assieme al suo cane da un colpo di fucile alla testa mentre usciva per comprargli del cibo. Qualche giorno fa suo cognato Denis è riuscito a recuperarlo con un carrello elevatore e dopo un’ora per strada ha raggiunto casa, preso una vanga, spalato e messo una croce sul terreno nel giardino.
Davanti al palazzo che non c’è più, nella via centrale, c’è ancora chi spera che la gente fuggita nel rifugio, sepolto dal crollo dell’edificio, sia ancora viva. “Il mio cane si ferma qui, annusa”, dice una passante. “Non hanno risparmiato neppure il parco giochi dei bambini”, indica col dito l’anziano Vitalij, che racconta dell’arrivo degli aerei tra quei fabbricati di sei piani: “Volavano così bassi che sembravano virare tra i palazzi.
Su alcuni si accanivano, fin quando non crollavano”, dice proteggendosi da un vento gelido di polvere di macerie che entra negli occhi fino a farli bruciare, ma che a tratti diventa salvifico. Meglio non guardare.
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