Sab. Nov 23rd, 2024

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   La sera del 19 marzo 2002 il professor Marco Biagi venne assassinato da un commando delle Nuove Brigate Rosse, mentre stava rientrando a casa, sotto il portico di via Valdonica, nel ghetto ebraico di Bologna. Biagi era consulente del ministero del Lavoro e gli spari dei brigatisti colpivano a morte un altro giuslavorista, tre anni dopo Massimo D’Antona. Fu preso di mira in quanto uno degli ispiratori della legge 30 – con il suo libro bianco sul mercato del lavoro – che poi gli é stata, di fatto, intitolata.

    La sua morte fece prendere coscienza che il rischio del terrorismo per l’Italia e per Bologna non era ancora chiuso e la memoria è stata a lungo accompagnata da polemiche, puntate sul fatto che un uomo ucciso in un attacco eversivo allo Stato, dallo stesso Stato non era stato sufficientemente protetto, dal momento che la scorta gli era stata revocata.

    I processi sull’omicidio si sono conclusi nel 2009 con la sesta e ultima condanna, di Diana Blefari Melazzi, suicida in cella poco dopo la sentenza definitiva del carcere a vita.

    Condanne all’ergastolo erano arrivate prima anche per Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma; 21 anni per Simone Boccaccini e dieci anni, cinque mesi e dieci giorni per la pentita, Cinzia Banelli.

    La svolta nelle indagini ci fu il 2 marzo 2003, quando su un treno la Polizia ferroviaria intercettò due tra i capi del gruppo eversivo: Mario Galesi, che venne ucciso, e Nadia Lioce.

    Nella sparatoria sul treno Roma-Firenze rimase ucciso anche il soprintendente della polfer Emanuele Petri e ferito seriamente il suo collega Bruno Fortunato. Gli investigatori, dopo l’arresto di Lioce, riuscirono a ricostruire il gruppo di fuoco e i complici che avevano dato supporto.
    Sei responsabili per la giustizia italiana e nessun elemento su ulteriori partecipanti. Nel 2016 la Procura di Bologna ha archiviato anche la posizione di 12 brigatisti “irriducibili”, in carcere all’epoca degli omicidi Biagi e D’Antona, indiziati inizialmente di avere avuto un ruolo nei delitti.

 

Ascolta “Hanno ammazzato Marco Biagi (Di Leonardo Nesti)” su Spreaker.

 

    La vicenda della mancata scorta conobbe una prima inchiesta, subito dopo l’assassinio. Nel 2003 si chiuse con la richiesta di archiviazione da parte della procura per l’accusa di cooperazione colposa in omicidio per l’allora direttore dell’Ucigos, Carlo De Stefano, il suo vice Stefano Berrettoni, il questore Romano Argenio e il prefetto Sergio Iovino. Le Br, fu la conclusione del gip, che archiviò, scelsero di colpire il professor Biagi anche perché gli fu tolta la protezione, per una serie di errori sia a livello centrale che periferico, che però non avevano rilievo penale.
    La seconda indagine ha portato a oltre 70 pagine di ricostruzione storico-investigativa per mettere in fila presunte omissioni, negligenze e responsabilità, ma non ha mai avuto un vaglio di un giudice che entrasse nel merito: è caduta infatti nel vuoto la ‘sfida’ rivolta nel 2015 dalla Procura di Bologna alle persone indagate, l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, a rinunciare alla prescrizione. Proprio Scajola era stato costretto alle dimissioni dopo un’esternazione fatta a tre mesi dall’omicidio: “Biagi era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza”.
    Sulla memoria di Marco Biagi e sulla riforma a suo nome il mondo politico, economico e sindacale ha litigato per anni.
    Grandi polemiche ci furono con la Cgil, acuite dal fatto che poi il segretario del sindacato, Sergio Cofferati, sia stato per cinque anni il sindaco di Bologna. Sullo sfondo, il silenzio della vedova Marina Orlandi, rotto solo dieci anni dopo l’omicidio, quando disse: “Dopo che persone infami lo hanno ucciso, il suo nome è stato associato alla precarietà: questa è una bugia terribile. Marco anzi voleva proteggere chi si sarebbe trovato in questa difficolta”. 



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